Benedetto XVI continua a preoccuparsi del relativismo e chiama in causa il filosofo tedesco Nietzsche. "Dalla violenza al relativismo" è il titolo di un articolo di Franco Volpi apparso su La Repubblica venerdì 10 aprile e che riporterò in parte.
[...] Ed è meglio prendere Nietzsche non per le risposte che dà, ma per le domande che pone.
Primo: dopo che la storia ci ha insegnato che spesso il possesso della Verità produce fanatismo, e che un individuo armato di verità è un potenziale terrorista, vien fatto di chiedere: il relativismo e il nichilismo sono davvero quel male radicale che si vuol far credere? O essi non producono forse anche la consapevolezza della relatività di ogni punto di vista, quindi anche di ogni religione? E allora non veicolano forse il rispetto del punto di vista dell'altro e dunque il valore fondamentale della tolleranza? C'è del bello anche nel relativismo e nel nichilismo: inibiscono il fanatismo.
La sua critica della mentalità e della morale "del gregge", la sua difesa di quello che potremmo definire un "diritto all'eccellenza" è un tentativo di superare la sterilità della semplice proibizione, dell'abnegazione e della rinuncia, che mortificano la vita. Nietzsche vuole che la vita si realizzi in tutte le sue potenzialità. E consiglia perciò un atteggiamento "creativo" che dia alla vita tutta la sua pienezza, analogo a quello dell'artista che imprime alla sua opera una forma bella.
Uno dei problemi della Chiesa attuale è che la produzione della felicità le è sfuggita di mano. Ma nonn è colpa di Nietzsche se la forza dei Vangeli svanisce e la condizione dell'uomo occidentale è sempre più paganizzata.
La relatività credo stia alla base della felicità. Il fanatismo, il fondamentalismo, la chiusura a qualsiasi novità stanno invece alla base della tristezza. I famosi vecchi saggi esprimono serenità proprio per saper guardare la realtà con occhi tolleranti, senza esclusioni o irrigidimenti. Nel giorno imminente della Felicità, della Gioia per la resurrezione, la sfida rimane come raggiungere la nostra felicità, più che gioire per le felicità altrui. Una felicità che passa necessariamente attraverso le croci, che però possiamo ridurre togliendo quelle che ci auto-assegnamo inutilmente.
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