SCELTA STORICA O PROFETICA?
dell'amico Lorenzo
TOMMASELLI
Comunque la
si pensi su Benedetto XVI, le dimissioni di Joseph Ratzinger
dall’esercizio del ministero petrino sono un evento storico, che ha
sconvolto la struttura ecclesiastica ed ha aperto, forse suo
malgrado, prospettive nuove nella vita della chiesa romana.
Al momento,
è difficile valutare in tutta la sua portata un gesto che senz’altro
è entrato nella storia della chiesa moderna, a prescindere dalla
personalità di chi lo ha fatto: probabilmente ce lo saremmo
aspettati più da un papa più aperto che da un conservatore come
Benedetto XVI.
Ma, al di là
di tutto, restano il significato e più ancora le conseguenze di
questa decisione, che sembra aver scosso molte persone nel sistema di
potere vaticano.
Eh sì,
perché tutto sembra girare intorno ad un sistema di potere, come
quello vaticano, estraneo in radice all’esperienza di vita di Gesù
ed al suo vangelo. Nella storia della chiesa i papi si sono
attribuiti espressioni e titoli come “vicario di Cristo”, “sommo
pontefice”, “santo padre”, “beatissimo padre”, “santità”.
E noi,
impotenti e sgomenti,
abbiamo assistito, a
questa sempre più
accentuata ed inaccettabile sacralizzazione della persona e del ruolo
del vescovo di Roma, ben al di là della sua reale configurazione
ecclesiale, processo, questo, già ampiamente realizzato e portato ad
un livello altissimo sotto Giovanni Paolo II.
Infatti
nella storia si è sempre più legittimato questo sistema, assoluto
ed antievangelico, che si vuole tragga la sua origine nelle parole
che Gesù, nel vangelo di Matteo (16,18), rivolge all’apostolo
Pietro: “Tu sei Pietro e su questa pietra
edificherò la mia chiesa”.
Purtroppo
una traduzione ed una conseguente comprensione non puntuale del testo
greco originale hanno potuto far nascere la più profonda
incomprensione di quello che il testo matteano vuole dire.
Infatti nel
testo originale c’è un gioco di parole tra due termini greci,
pétros e pétra,
che però non sono l’uno il femminile dell’altro (tipo “porto”
e “porta”) ma significano il primo “sasso, mattone” - ed è
il soprannome (“testa dura”) che gli evangelisti danno a Simone,
mentre Gesù lo chiama sempre con il suo nome - ed il secondo
“roccia”.
Quindi la
frase di Mt 16,18 sopra citata significa: Tu nella mia comunità sei
un mattone (pétros)
importante di questa comunità, ma essa è edificata su di me (pétra,
la roccia). Quindi la roccia non è l’apostolo
Pietro, ma lo stesso Gesù, come, tra
l’altro, altri testi del Nuovo Testamento confermano (si veda, p.
es. Ef 2, 20-22).
Perciò il
ministero petrino, nella sua essenza evangelica, è un ministero di
servizio, è la “presidenza dell’amore”, secondo la bella
espressione di Ignazio d’Antiochia, un ministero che non soffoca
quello degli altri vescovi, ma che lo dilata in una chiave
universale, in una sorta di coordinamento delle chiese locali.
Perché il
papa è tale perché vescovo di Roma e non il contrario, quindi non è
un super-vescovo, ma è un vescovo, quello di Roma, certamente con un
ruolo importante nel costruire l’unità e la comunione nella
diversità tra le comunità di fede.
Ma purtroppo
queste elementari osservazioni, tali per chi ha un minimo di
conoscenza sull’argomento, sono state taciute dalla stragrande
maggioranza (tranne pochissime eccezioni, tra cui i proff. Vito
Mancuso ed Alberto Melloni) di improvvisati commentatori nelle ore
immediatamente successive all’annuncio delle dimissioni, quando
siamo stati costretti a subire in televisione e sui giornali un’orgia
devastante di commenti.
Le sfide che
il cristianesimo ha davanti sono enormi, ma questo cristianesimo,
questa forma di cristianesimo (il cristianesimo edito,
come diceva l’indimenticato p. Ernesto Balducci) potranno avere un
ruolo ed un senso nella società attuale solo se muoiono per
rinascere alla luce di un dinamismo evangelico che porti a tutti
speranza, senso per la vita, liberazione dalle sofferenze.
Tutto
questo perché ci siamo allontanati decisamente dal cammino e dalla
prassi dell’Uomo di Nazareth, del Figlio dell’Uomo, di Colui che
nella Sua vita ha realizzato il progetto del Padre sull’umanità.
E’ inutile
e controproducente soffermarsi ossessivamente sulla difesa di
presunti valori non negoziabili (nei vangeli ne abbiamo uno solo: la
dignità e la felicità degli esseri umani),
men che mai avere come punto essenziale dell’annuncio il discorso
su Dio.
Questo Dio
non sta alla nostra portata, è per definizione il trascendente, di
Lui possiamo fare esperienza rimettendo al centro dell’esperienza
ecclesiale solo ed esclusivamente Gesù di
Nazareth, che ne è la rivelazione piena, e la sua prassi
liberatrice. E’ Gesù che sta al centro del
Vangelo con le sue scelte di vita forti ed esigenti, non Dio, un Dio
che noi umani non possiamo conoscere perché è il “totalmente
Altro” (R. Otto) da noi.
E le ormai
indifferibili richieste di riforme, avanzate da significativi settori
del mondo ecclesiale, non hanno trovato ascolto ed attenta
considerazione nella gerarchia, che, a partire dall’immediato post
Concilio, si è sempre più richiusa in se stessa, disattendendo
la pregnanza e
l’urgenza dei contenuti di riforma,
proposti alla comune riflessione, anche da
autorevoli membri dell’episcopato.
Tra gli
ultimi, il compianto
arcivescovo di Milano e cardinale
Carlo Maria Martini,
che con la sua indiscussa autorevolezza culturale e la sua limpida
testimonianza pastorale si è fatto coraggioso interprete di
quest’ansia di rinnovamento, denunciando
anche consistenti ritardi dell’istituzione ecclesiastica rispetto
alla necessità di un rinnovamento ecclesiale in
capite et in membris.
Sono
quelle stesse tematiche sulle quali si è soffermata la
lucida e libera riflessione del grande teologo e moralista
p. Bernhard
Häring nell’ultimo periodo della sua vita, in particolare nel
volumetto “Perché
non fare diversamente?”
(Queriniana, 1993). In esso il grande moralista
scomparso chiedeva
una «nuova forma di rapporti nella Chiesa», proponendo, tra
l’altro, in una finzione poetica, una lettera pastorale di un papa,
diremmo oggi, “virtuale”, papa Giovanni XXIV, nel quale viene
sicuramente adombrata la figura di papa Roncalli, ma, credo, anche in
parte quella di papa Luciani, ugualmente intrisa dello spirito
giovanneo.
E
come non richiamare alla memoria della comunità ecclesiale la
luminosa figura dell’arcivescovo di Torino card. Michele
Pellegrino, per tutti “padre” Pellegrino, insigne studioso e
pastore, morto nel 1986! In una storica intervista del marzo 1981
sulla rivista “Il Regno”,
con uno spirito di libertà e di franchezza episcopale, di cui si è
oramai perso il ricordo nella prassi
ecclesiale, aveva
stigmatizzato con nettezza e senza reticenze curiali le problematiche
e le incertezze di una chiesa, combattuta tra paura e profezia, le
stesse tematiche sulle quali, dopo più di
vent’anni, è ritornato il card.
Martini.
Se
la Chiesa non serve, non
serve a niente,
ricorda di continuo mons. Jacques Gaillot,
vescovo emerito di Partenia, coraggioso
missionario del Regno e vittima anch’egli, insieme a tanti altri,
dell’involuzione autoritaria del potere ecclesiastico.
Come
non vedere la sclerosi sempre più galoppante
che si è diffusa nelle
strutture ecclesiali e che le
sta rendendo sempre più un apparato di potere destinato alla sua
autoconservazione, un arido museo, invece che,
secondo l’efficace metafora di
Giovanni XXIII, un
olezzante giardino, segno di speranza e di liberazione per
tutti?
In
tutto questo grigiore burocratico, in un’atmosfera ecclesiale (e
non solo), nella quale l’attenzione ed il riferimento al vescovo di
Roma hanno da tempo assunto accenti di vero e proprio culto della
personalità, dov’è il sogno del Padre
per un’umanità nuova, quel progetto per il quale ha dato la vita
l’Uomo di Nazareth “nato
dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con
potenza secondo lo Spirito”
(Rm,1,
3-4)?
La
speranza, virtù ardua da concepire in questo momento ma prezioso
talento da far fruttare, è riposta in una maturazione della comunità
ecclesiale,
che, se si aprirà sempre più allo Spirito, potrà continuare
un processo ecclesiogenico, brutalmente
interrotto già a ridosso dell’esperienza conciliare,
ma che potrà favorire la costruzione di una Chiesa
altra, più
aperta, più “cattolica”, meno “romana” e certamente molto
più vicina al sogno di Gesù di
Nazareth.
Nonostante
le sorde e forti resistenze
curiali, verrà il tempo favorevole, nel
ricordo di Giovanni XXIII, dell’azione
e dell’esempio
di tanti, vescovi, preti
e laici, che hanno continuato,
contra
spem, a
battersi per una Chiesa
altra ed a
credere nel sogno e nelle promesse di Dio, che sono diventate sì in
Gesù Cristo (cf 2Cor,1,20).
Se le
dimissioni di papa Benedetto XVI saranno servite ad innescare ed a
realizzare questo moto di rinnovamento, saranno un innegabile merito
di fronte alla storia che Joseph Ratzinger avrà avuto e che
difficilmente gli potrà essere negato.
Nessun commento:
Posta un commento