(dall'articolo di Miriam Mafai su Repubblica del 2 febbraio 2009)
Questo non è razzismo. Forse, se possibile, è ancora peggio. È puro e semplice culto della violenza. E non si corrono rischi quando la violenza non si esercita tra bande rivali ma nei confronti di chi è del tutto indifeso. La vittima allora può essere una donna che torna a casa, da sola, una sera, o una coppia appartata nella sua macchina, o un barbone italiano o straniero che dorme per terra appena protetto da una coperta o da un paio di cartoni. Un divertimento? Pare proprio di sì, un divertimento o una emozione, esaltata dai pianti della donna violentata o dalle grida di un barbone cui viene dato fuoco, dalla sofferenza di un debole che non può reagire.
Nel nostro mondo, insomma, l'aggressività, la violenza, la forza, o per lo meno una certa dose di aggressività, di violenza, di forza vengono generalmente considerate necessarie, indispensabili per avere successo.
I ragazzi di Nettuno che hanno dato fuoco a un barbone, i giovani rumeni che hanno aggredito una coppietta, chiuso l'uomo nel bagagliaio della macchina e violentato la sua ragazza, il giovane romano figlio di una famiglia di lavoratori che "per divertisse" ha violentato una ragazza conosciuta a Capodanno, ci fanno paura, ma sono figli di questa cultura. È la nostra cultura, quella che caratterizza la nostra società, che in qualche modo abbiamo costruita, che disprezza e irride alla mitezza, alla pazienza, alla solidarietà, alla debolezza, alla sobrietà.
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