Una testimonianza di integrazione
di Zahoor Ahmad Zargar
www.famigliazargar.com
Quando sono venuto a vivere qui dal Kashmir, molti anni fa, mia moglie (che è savonese) si era accorta che mio padre usava nelle sue lettere frasi tipo “luce dei miei occhi” e mi chiedeva di raccontarle in che modo rispondessi io ai miei parenti. Noi, infatti, usiamo molte immagini e paragoni nell’esprimerci, così mi aveva proposto di scrivere qualcosa sostenendo che sarebbe piaciuto agli italiani, dato che lo stile letterario varia da paese a paese.
All’inizio, stendevo i testi in urdu e poi, insieme con lei, cercavamo di tradurli fedelmente: così è nata la poesia Liguria, ad esempio. Una persona che viene da fuori, infatti, rimane subito affascinata dal paesaggio; in seguito, però, si scontra con l’isolamento e con una mentalità assai provinciale: mentre il mondo diventava globale, qui si voleva vivere come prima, fare ciò che era sempre stato fatto, perdendo opportunità preziose e non capendo che l’incontro e il confronto con altre realtà arricchisce. È come quando si entra in una stanza chiusa e si sente puzza, ma chi è dentro non se ne accorge. Naturalmente, non c’era intenzione di offendere, ma di risvegliare le coscienze, scuotere con una provocazione per uscire dallo stagno. Poi, ho osservato anche il modo di fare dei savonesi, per me inconsueto: chiuso, senza colore; ho paragonato il comportamento della gente di questo paese con quello della mia. Così ho immaginato di scrivere una lettera a mia sorella (“Lettera a Mabuba”) dove raccontavo la perdita della vita sociale con il progresso, come avviene in tutto il mondo, la mancanza di solidarietà… In apparenza, tutti sembrano felici, hanno molta materialità, ma dentro gli manca tutto. Non conta quanti palazzi, automobili si abbiano, se si sia stati fuori a divertirsi per tutta la notte: poi si torna a casa, si è soli e si sta ingannando la realtà! E’ come con i braccialetti ciui-mui che le ragazzine del mio paese usano: sono tanto belli, ma si rompono subito, ferendo i polsi… Ricordo che una signora che l’aveva letta è venuta nel mio negozio e ha pianto per tanto tempo! In questo modo, mi sono fatto conoscere localmente e, dato che sono musulmano, tanti venivano da me a domandare se anche noi musulmani potessimo avere un luogo dove pregare. Nel 1998, siamo riusciti ad affittare un locale ma, soprattutto, ne abbiamo fatto un luogo di vicinanza per far conoscere culture differenti agli italiani (noi stessi immigrati veniamo da paesi molto dissimili con vari usi, lingue e tradizioni) e meglio l’Italia agli stranieri. Per questo abbiamo organizzato, negli anni, convegni, dibattiti, abbiamo accolto alunni e insegnanti di molte scuole per parlare, incontrarci, far conoscere le nostre feste, le nostre preghiere, i tanti punti di contatto che ci legano. Credo che siamo riusciti a trasmettere il nostro messaggio qui a Savona, perché alle nostre manifestazioni è sempre venuta tanta gente, oltre a importanti rappresentanti istituzionali e delle altre religioni. Lo stesso messaggio abbiamo cercato di portare in Liguria e nel resto d’Italia, avendo io ricoperto varie cariche nella comunità. Gli stranieri amano questo paese come seconda patria, qui lavorano e i loro fi gli vanno a scuola, qui cercano di migliorare se stessi e l’ambiente che li circonda. Gli italiani devono dar loro la possibilità di vivere in modo degno. L’integrazione avviene quando le due parti si avvicinano e si rispettano. Per me, l’integrazione, invece, è iniziata proprio attraverso la scrittura e, in un secondo momento, è proseguita nel volontariato per la mia Comunità.
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