(...parte di un'intervista a Jean Marc Ela, teologo e sociologo del Camerun, ha lavorato per quattordici anni tra la popolazione kirdi del nord del Camerun, portando il messaggio di liberazione del Vangelo. Un lavoro che ha dato fastidio al potere e che lo ha costretto all’esilio in Canada dove è morto alcuni mesi fa)
Jean Marc Ela, lei è diventato teologo dopo aver fatto una tesi su Martin Lutero. Che cos’ha significato ciò per lei, e cos’è un teologo africano?
Il teologo africano deve cercare di comprendere come altri cristiani hanno tentato di leggere la Bibbia. La Riforma ha avuto luogo in un contesto storico in cui la chiesa aveva bisogno di un’innovazione profonda, che arrivasse alla radice delle cose. E la radice è il rapporto con Dio nella fede; ciò che Lutero ha voluto fare è restaurare la sovranità di Dio. Tutto il suo sforzo consiste nel dire: “Lasciate che Dio sia Dio”.
Questa preoccupazione fondamentale mi ha aiutato ad operare una sorta di rivoluzione copernicana a partire dal contesto africano. Il teologo africano che ha lavorato sul pensiero di Lutero non può non sottomettere a un libero esame il rapporto tra l’uomo africano e il Vangelo in un contesto storico in cui tutto il peso dell’Occidente grava su questo rapporto. Per me il teologo africano deve parlare di Dio a partire dal luogo dove la Parola di Dio ci trova. Questo luogo è l’Africa stessa, tenendo conto delle sfide delle nostre società e della tragedia della nostra storia. Dopo anni ho preso coscienza che l’Africa è un vero polo di rivelazione, un luogo dove Dio parla alla chiesa e al mondo.
Ho preso coscienza dell’insignificanza del cristianesimo occidentale per l’uomo africano. Questo cristianesimo è integrato a un sistema di dominazione nel quale Dio rischia di essere catturato dalle forze che ci opprimono. Ora bisogna che Dio sia Dio, e perché lo sia bisogna che Dio sia liberato da questa schiavitù.
La mia teologia prende come punto di partenza il fatto che il Vangelo non può essere realmente una forza di liberazione se non lo si libera dal cristianesimo occidentale, fondamentalmente associato a un sistema di dominazione dopo la conversione dell’imperatore Costantino.
Si ritrova questo virus imperiale nell’ossessione dell’autorità in seno al cattolicesimo romano.
Come si può fare una lettura africana della Bibbia?
La Bibbia deve essere considerata come il racconto di una liberazione da Mosè fino a Gesù Cristo, che è venuto nel mondo per liberare i poveri e gli oppressi. La sfida della povertà e dell’oppressione è al centro della Rivelazione. È per questo che la nostra teologia non può che essere una teologia della liberazione. A questo riguardo, l’Africa appare come uno dei luoghi della terra dove la creazione geme in attesa della liberazione.
In che modo lei, da teologo, ha operato in Africa?
Il mio lavoro tra i kirdi del nord del Camerun consisteva nel mettere le persone nella condizione di organizzarsi per uscire da ogni situazione di povertà e di oppressione in cui vivevamo. Ho tentato di risvegliare le coscienze delle persone sulla loro situazione, di condurle a riunirsi, a organizzarsi, a creare delle comunità. E all’interno di queste comunità formavo dei leader che potevano essere il motore del cambiamento. Un lavoro che doveva partire da cose molto concrete: mi occupavo essenzialmente di terra, d’acqua e di miglio. Quella gente vive in montagna, dove la terra è stanca e di esaurisce. E nelle aree pianeggianti molti contadini sono senza terra. Così ogni anno bisogna prendere in affitto dei campi dai grandi proprietari terrieri. Lo stesso vale per l’acqua… C’è poi un problema di tipo di colture: condurre la gente ad interrogarsi sul ruolo che devono avere le piante per l’alimentazione in un sistema agricolo incentrato sul cotone al quale sono dedicate le terre migliori. Per fare ciò di organizzavamo seminari di riflessione, ma anche corsi di formazione e di alfabetizzazione.
Ma i capi tradizionali, i notabili e le autorità amministrative non apprezzavano il mio lavoro. Mi rimproveravano di aprire gli occhi alla gente. Per quattordici anni ho continuato a farlo, poi me ne sono dovuto andare per le persecuzioni appunto a causa del messaggio che diffondevo.
Lei appartiene a quella che si chiama la teologia della liberazione applicata all’Africa. Si riconosce in questa definizione?
La mia riflessione teologica è nata nei villaggi. Precisamente sotto l’albero della palabre, dei colloqui, nelle montagne del nord del Camerun dove, la sera, m’incontravo con i contadini e le contadine per leggere la Bibbia con i nostri occhi africani. La mia teologia non è nata tra quattro mura di cemento. Non ho mai insegnato teologia in un grande seminario e nelle università cattoliche in Africa. Sono intervenuto in alcuni istituti di teologia, specie in Belgio e in Germania, ma in maniera puntuale e per condividere la mia esperienza sul terreno o per discutere sulle mie opere.
Concretamente la mia teologia è partita dalla riscoperta del Dio di cui parla una donna del Nuovo Testamento. Maria canta il Dio che nutre gli affamati e lascia i ricchi a mani vuote. Questo Dio è nello stesso tempo colui che rovescia i potenti dai loro troni.
Mi indica tre questioni prioritarie per l’Africa?
In estrema sintesi. La mia prima preoccupazione è ridare al Vangelo in Africa tutta la sua crediblità e la sua pertinenza; e ciò in rottura con il discorso teologico che si è sviluppato in Occidente. Va messa in luce la forza sovversiva della memoria del Dio crocefisso che noi dobbiamo riscoprire.
Un'altra preoccupazione è determinare il ruolo che deve essere accordato alla gioventù. Per me la gioventù rappresenta la speranza del nostro continente e non bisognerebbe che ricadesse nella storia della sofferenza che è la storia dolorosa del popolo nero. Ci vorrebbe una rottura con questa storia: un’esperienza che deve avere al centro i giovani.
Infine mi chiedo come si possa arrivare ad una civilizzazione dello stato in Africa. E dico “civilizzazione” perché lo stato è “decivilizzato” nella misura in cui è organizzato sulla barbarie. La barbarie si è imposta in Africa negli ultimi trent’anni attraverso un’economia politica fondata sulla gestione della violenza da parte di poteri che uccidono, spogliano, accaparrano e monopolizzano l’accesso alle condizioni di esistenza. È necessario passare da questa barbarie dello stato a uno stato civilizzato. Civilizzare lo stato è la grande sfida di oggi.
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