mercoledì 30 settembre 2009

IL SILENZIO E LA COMUNICAZIONE


di Francesco Pullia

Secondo André Neher, uno dei maggiori esponenti dell'ebraismo contemporaneo, l'uomo spesso tace non perché non possegga una chiave migliore per accedere all'infinito ma perché 'il silenzio gli offre una prodigiosa varietà di chiavi' per misurarsi con la propria finitudine.
Se è vero che, come ci dice la Bibbia, c'è 'un tempo per tacere ed uno per parlare', è altrettanto vero che il tempo del silenzio è scandito dalla capacità, insita in noi, di ascoltare e comprendere meglio la finitudine cui abbiamo accennato.
 
E' risaputo che sia il Mahatma Gandhi che Aldo Capitini, il filosofo italiano che maggiormente si è dedicato all'elaborazione di un pensiero della nonviolenza, quando non ricorrevano al digiuno come strumento di lotta politica, si astenessero di proposito periodicamente dal cibo e dalle parole, così come Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto, fondatore della comunità dell'Arca, e Vinoba Bhave, continuatore in India del messaggio gandhiano.
Il digiuno non consisteva soltanto nel non ingerire alimenti o nell'evitare di ricorrere al linguaggio parlato come forma di totale purificazione ma soprattutto nell'abbandonare quella negatività che, a livello mentale, intossica l'animo, portandoci continuamente ad emettere giudizi nei confronti del nostro prossimo senza mai esaminare responsabilmente il nostro operato.
Ciò non coincideva affatto con la sospensione delle attività quotidiane, con una mancata assunzione di impegni, e tanto meno con l'isolamento dalla società.
Al contrario, con il silenzio del corpo e della voce, sviluppando in sé umiltà e amore, Gandhi accentuava la propria capacità di mettersi in relazione con un'alterità più vasta, di percepire pienamente quella che Capitini ha efficacemente chiamato la compresenza dei morti e dei viventi, cioè il concorso di tutti gli esseri senzienti, umani e non, persino degli assenti, alla creazione di realtà.
 
E' lecito a questo punto chiedersi se il silenzio sia davvero un azzeramento della parola, un deserto o non costituisca, piuttosto, una sfera a cui la parola attinge quando si fa strumento di conoscenza e non chiacchiera.
Siamo sommersi, come ben sappiamo, dalle chiacchiere, invasi, frastornati da quella che Martin Heidegger non esitò a bollare come la banalizzazione del linguaggio. Non è esagerato affermare che, paradossalmente, nell'epoca della trasmissione generalizzata di dati, notizie, informazioni, della proliferazione di sofisticatissimi mezzi mediatici, dell'estensione capillare della rete, la cui utilità nessuno intende qui negare, è venuta a mancare proprio la comunicazione. [...]
 

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