sabato 30 marzo 2013

Le dimissioni di Ratzinger


 SCELTA STORICA O PROFETICA?

dell'amico Lorenzo TOMMASELLI


Comunque la si pensi su Benedetto XVI, le dimissioni di Joseph Ratzinger dall’esercizio del ministero petrino sono un evento storico, che ha sconvolto la struttura ecclesiastica ed ha aperto, forse suo malgrado, prospettive nuove nella vita della chiesa romana.
Al momento, è difficile valutare in tutta la sua portata un gesto che senz’altro è entrato nella storia della chiesa moderna, a prescindere dalla personalità di chi lo ha fatto: probabilmente ce lo saremmo aspettati più da un papa più aperto che da un conservatore come Benedetto XVI.
Ma, al di là di tutto, restano il significato e più ancora le conseguenze di questa decisione, che sembra aver scosso molte persone nel sistema di potere vaticano.
Eh sì, perché tutto sembra girare intorno ad un sistema di potere, come quello vaticano, estraneo in radice all’esperienza di vita di Gesù ed al suo vangelo. Nella storia della chiesa i papi si sono attribuiti espressioni e titoli come “vicario di Cristo”, “sommo pontefice”, “santo padre”, “beatissimo padre”, “santità”.
E noi, impotenti e sgomenti, abbiamo assistito, a questa sempre più accentuata ed inaccettabile sacralizzazione della persona e del ruolo del vescovo di Roma, ben al di là della sua reale configurazione ecclesiale, processo, questo, già ampiamente realizzato e portato ad un livello altissimo sotto Giovanni Paolo II.
Infatti nella storia si è sempre più legittimato questo sistema, assoluto ed antievangelico, che si vuole tragga la sua origine nelle parole che Gesù, nel vangelo di Matteo (16,18), rivolge all’apostolo Pietro: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa”.
Purtroppo una traduzione ed una conseguente comprensione non puntuale del testo greco originale hanno potuto far nascere la più profonda incomprensione di quello che il testo matteano vuole dire.
Infatti nel testo originale c’è un gioco di parole tra due termini greci, pétros e pétra, che però non sono l’uno il femminile dell’altro (tipo “porto” e “porta”) ma significano il primo “sasso, mattone” - ed è il soprannome (“testa dura”) che gli evangelisti danno a Simone, mentre Gesù lo chiama sempre con il suo nome - ed il secondo “roccia”.
Quindi la frase di Mt 16,18 sopra citata significa: Tu nella mia comunità sei un mattone (pétros) importante di questa comunità, ma essa è edificata su di me (pétra, la roccia). Quindi la roccia non è l’apostolo Pietro, ma lo stesso Gesù, come, tra l’altro, altri testi del Nuovo Testamento confermano (si veda, p. es. Ef 2, 20-22).
Perciò il ministero petrino, nella sua essenza evangelica, è un ministero di servizio, è la “presidenza dell’amore”, secondo la bella espressione di Ignazio d’Antiochia, un ministero che non soffoca quello degli altri vescovi, ma che lo dilata in una chiave universale, in una sorta di coordinamento delle chiese locali.
Perché il papa è tale perché vescovo di Roma e non il contrario, quindi non è un super-vescovo, ma è un vescovo, quello di Roma, certamente con un ruolo importante nel costruire l’unità e la comunione nella diversità tra le comunità di fede.
Ma purtroppo queste elementari osservazioni, tali per chi ha un minimo di conoscenza sull’argomento, sono state taciute dalla stragrande maggioranza (tranne pochissime eccezioni, tra cui i proff. Vito Mancuso ed Alberto Melloni) di improvvisati commentatori nelle ore immediatamente successive all’annuncio delle dimissioni, quando siamo stati costretti a subire in televisione e sui giornali un’orgia devastante di commenti.
Le sfide che il cristianesimo ha davanti sono enormi, ma questo cristianesimo, questa forma di cristianesimo (il cristianesimo edito, come diceva l’indimenticato p. Ernesto Balducci) potranno avere un ruolo ed un senso nella società attuale solo se muoiono per rinascere alla luce di un dinamismo evangelico che porti a tutti speranza, senso per la vita, liberazione dalle sofferenze.
Tutto questo perché ci siamo allontanati decisamente dal cammino e dalla prassi dell’Uomo di Nazareth, del Figlio dell’Uomo, di Colui che nella Sua vita ha realizzato il progetto del Padre sull’umanità.
E’ inutile e controproducente soffermarsi ossessivamente sulla difesa di presunti valori non negoziabili (nei vangeli ne abbiamo uno solo: la dignità e la felicità degli esseri umani), men che mai avere come punto essenziale dell’annuncio il discorso su Dio.
Questo Dio non sta alla nostra portata, è per definizione il trascendente, di Lui possiamo fare esperienza rimettendo al centro dell’esperienza ecclesiale solo ed esclusivamente Gesù di Nazareth, che ne è la rivelazione piena, e la sua prassi liberatrice. E’ Gesù che sta al centro del Vangelo con le sue scelte di vita forti ed esigenti, non Dio, un Dio che noi umani non possiamo conoscere perché è il “totalmente Altro” (R. Otto) da noi.
E le ormai indifferibili richieste di riforme, avanzate da significativi settori del mondo ecclesiale, non hanno trovato ascolto ed attenta considerazione nella gerarchia, che, a partire dall’immediato post Concilio, si è sempre più richiusa in se stessa, disattendendo la pregnanza e l’urgenza dei contenuti di riforma, proposti alla comune riflessione, anche da autorevoli membri dell’episcopato.
Tra gli ultimi, il compianto arcivescovo di Milano e cardinale Carlo Maria Martini, che con la sua indiscussa autorevolezza culturale e la sua limpida testimonianza pastorale si è fatto coraggioso interprete di quest’ansia di rinnovamento, denunciando anche consistenti ritardi dell’istituzione ecclesiastica rispetto alla necessità di un rinnovamento ecclesiale in capite et in membris.
Sono quelle stesse tematiche sulle quali si è soffermata la lucida e libera riflessione del grande teologo e moralista p. Bernhard Häring nell’ultimo periodo della sua vita, in particolare nel volumetto “Perché non fare diversamente?” (Queriniana, 1993). In esso il grande moralista scomparso chiedeva una «nuova forma di rapporti nella Chiesa», proponendo, tra l’altro, in una finzione poetica, una lettera pastorale di un papa, diremmo oggi, “virtuale”, papa Giovanni XXIV, nel quale viene sicuramente adombrata la figura di papa Roncalli, ma, credo, anche in parte quella di papa Luciani, ugualmente intrisa dello spirito giovanneo.
E come non richiamare alla memoria della comunità ecclesiale la luminosa figura dell’arcivescovo di Torino card. Michele Pellegrino, per tutti “padre” Pellegrino, insigne studioso e pastore, morto nel 1986! In una storica intervista del marzo 1981 sulla rivista “Il Regno”, con uno spirito di libertà e di franchezza episcopale, di cui si è oramai perso il ricordo nella prassi ecclesiale, aveva stigmatizzato con nettezza e senza reticenze curiali le problematiche e le incertezze di una chiesa, combattuta tra paura e profezia, le stesse tematiche sulle quali, dopo più di vent’anni, è ritornato il card. Martini.
Se la Chiesa non serve, non serve a niente, ricorda di continuo mons. Jacques Gaillot, vescovo emerito di Partenia, coraggioso missionario del Regno e vittima anch’egli, insieme a tanti altri, dell’involuzione autoritaria del potere ecclesiastico.
Come non vedere la sclerosi sempre più galoppante che si è diffusa nelle strutture ecclesiali e che le sta rendendo sempre più un apparato di potere destinato alla sua autoconservazione, un arido museo, invece che, secondo l’efficace metafora di Giovanni XXIII, un olezzante giardino, segno di speranza e di liberazione per tutti?
In tutto questo grigiore burocratico, in un’atmosfera ecclesiale (e non solo), nella quale l’attenzione ed il riferimento al vescovo di Roma hanno da tempo assunto accenti di vero e proprio culto della personalità, dov’è il sogno del Padre per un’umanità nuova, quel progetto per il quale ha dato la vita l’Uomo di Nazareth “nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito” (Rm,1, 3-4)?
La speranza, virtù ardua da concepire in questo momento ma prezioso talento da far fruttare, è riposta in una maturazione della comunità ecclesiale, che, se si aprirà sempre più allo Spirito, potrà continuare un processo ecclesiogenico, brutalmente interrotto già a ridosso dell’esperienza conciliare, ma che potrà favorire la costruzione di una Chiesa altra, più aperta, più “cattolica”, meno “romana” e certamente molto più vicina al sogno di Gesù di Nazareth.
Nonostante le sorde e forti resistenze curiali, verrà il tempo favorevole, nel ricordo di Giovanni XXIII, dell’azione e dell’esempio di tanti, vescovi, preti e laici, che hanno continuato, contra spem, a battersi per una Chiesa altra ed a credere nel sogno e nelle promesse di Dio, che sono diventate sì in Gesù Cristo (cf 2Cor,1,20).
Se le dimissioni di papa Benedetto XVI saranno servite ad innescare ed a realizzare questo moto di rinnovamento, saranno un innegabile merito di fronte alla storia che Joseph Ratzinger avrà avuto e che difficilmente gli potrà essere negato.

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