venerdì 30 gennaio 2009

MATRIMONI MISTI - INTEGRAZIONE ASSICURATA


( di Federico Bollettin da "Il Mattino di Padova" di venerdì 30 gennaio 2009)



L'amore non ha confini, nè culturali nè territoriali. É come il vento, libero di soffiare dentro qualsiasi struttura sociale e modello mentale. Mani sempre più multietniche si scambiano anelli d'oro nella sala del municipio o dentro ad una chiesa e sfilano orgogliose nelle piazze e lungo le strade, vincendo quel pizzico di vergogna, ultimo retaggio del campanilismo veneto “donne e buoi dai paesi tuoi”.

Le recenti statistiche effettuate dal Comune confermano il notevole aumento di matrimoni misti celebrati a Padova. Dal 1997 al 2006 la percentuale si è quadruplicata passando dal 4,85% al 19,23% del totale dei matrimoni con almeno un coniuge di cittadinanza straniera. Del resto se aumenta la presenza di stranieri nella nostra città, di conseguenza cresce la probabilità matematica che il proprio partner non parli bene il dialetto veneto o l'italiano. Sono più frequenti i casi in cui è la donna ad essere straniera e in quanto tale diventa attore principale per una reale integrazione, fa da anello di congiunzione e da sintesi. Nel linguaggio biblico il termine “conoscere” significa amare, si conosce bene soltanto chi si ama. Per amore si può apprendere più facilmente e più velocemente.

Oltre a non avere confini, l'amore non ha fini, ed è difficile perciò individuare le motivazioni che spingono un padovano ad intrapprendere una relazione affettiva con una persona straniera e successivamente a sposarla, e viceversa. Attrazione fisica, bisogno di stabilità, ricerca di particolari valori, soluzione alle precedenti delusioni familiari, pura coincidenza. “Mi piace e basta!” rimane la risposta più gettonata. Se ha uno scopo, per l'extracomunitario potrebbe essere quello di ottenere i documenti, per l'italiano risolvere il problema della solitudine. Il fatto sta che il rapporto si gioca effettivamente sulla base del carattere personale che viene sì condizionato dalla cultura di provenienza ma che la trascende. “All'inizio mi sembrava impossibile poter dividere la mia vita con una donna moldava – afferma Marco, operaio di professione – poi mi sono accorto che avevamo molti aspetti in comune. Anzi ho riscoperto il valore della famiglia”. La fedeltà e l'onestà, la responsabilità e il rispetto sono valori universali, propri di qualsiasi cultura che non sia però espressione di ideologie totalitarie o fondamentalismi religiosi. Pregiudizi e luoghi comuni da entrambe le parti assegnano spesso etichette che, generalizzando, considerano tutte le donne rumene false, le nigeriane prepotenti, le latinoamericane infedeli, e così via. Per le straniere invece le donne italiane sono troppo autoritarie, ansiose e gelose. Nell'immaginario comune la coppia mista è quella formata principalmente da una persona di pelle bianca e un'altra di pelle nera. Eppure, andando oltre l'apparenza dello sguardo fisico, può esserci più diversità tra due persone dello stesso colore della pelle.

Grazie alle coppie miste e alle amicizie interetniche, l'integrazione è assicurata. Si tratterà di capire quali siano i compromessi per non annullare o appiattire le diversità culturali, ma per renderle preziose occasioni. E accettare che non esiste una cultura predominante che assorba integralmente le minoranze senza contaminarsi e arricchirsi.

martedì 27 gennaio 2009

APRIAMO GLI OCCHI!


... E TIRIAMO FUORI LA LINGUA!


Migliaia di notizie ci piombano addosso continuamente, ma soltanto alcune meritano attenzione e credibilità. Sulla rete ormai c'è tutto, possiamo trovare il pensiero di chi non trova spazio nelle televisioni o sui giornali. Notizie che screditano istituzioni potenti e politici corrotti. Perchè non siamo massa, folla da stadio. E neppure eterni bambini disposti a mentire in cambio di una caramella. Siamo adulti, liberi e responsabili. Con il diritto di pensare e di decidere.

SIAMO TUTTI CLANDESTINI

Siamo tutti clandestini,
precari e viventi
con un contratto a tempo determinato,
nei confronti di tutti,
anche di noi stessi.
Questa terra ci ospita come eterni stranieri,
come perenni pellegrini.
"Nudo uscii dal ventre di mia madre
e nudo vi ritornerò".
Le montagne, per fortuna, sono ancora più forti dell'uomo
che vuole scalarle a tutti i costi.
"Siete troppo curiosi
voi occidentali"
mi ripete mia moglie africana.
A Lampedusa attualmente
di clandestini ce ne sono 1800.
Stretti, ammassati come bestie,
in attesa di essere schedati, espulsi, rimpatriati o ridistribuiti.
Cosa cercano in Italia?
Vorrei salire su quei barconi
abbandonati lungo le coste di un benessere fittizio
e compiere il viaggio inverso.
"La terra è la nostra madre",
si può vendere o comprare la propria madre?

GIORNATA DELLA MEMORIA

"Sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera,
può suonare Bach e Schubert,
e poi, il mattino dopo,
recarsi come niente fosse al proprio lavoro
ad Auschwitz"
George Steiner

VIDEO CONGO. clicca qui

Questo video, di alcuni mesi fa, mostra un tragico paradosso: il sottosuolo del Congo è probabilmente il più ricco del pianeta, eppure come si fa a morire ancora di fame quando si è seduti su una montagna d'oro?

giovedì 22 gennaio 2009

VIAGGIATORI ETICI


Quando l'errare non è un errore. Il nuovo trend si chiama "Turismo etico" e il viaggiatore etico dovrebbe chiedere piuttosto "chi sostiene in vostro hotel"? e informarsi - prima di partire per l'Africa, l'Asia, le Americhe e per tutti il luoghi in cui l'industria del turismo ha spopolato ai danni della gente - se l'albergo prescelto faccia parte di una multinazionale o di un gruppo locale. I viaggiatori etici in fondo non sono molti ma sono invece tantissimi i popoli che vivono in luoghi turistici, senza che l'andirivieni di gente danarosa abbia migliorato la loro condizione. Sono quei popoli che vengono ritratti nelle baracche fotografate, a mo' di avventura, dai turisti, durante il piccolo tour in pullman con vista sulla povertà. Un invito a riflettere, non soltanto a viaggiare.


Essere ospitati nelle famiglie è un'esperienza fantastica. Così come lo è stato per molti giovani durante i viaggi in Camerun nel 2003 e nel 2007. Gli africani dei villaggi sono ancora molto ospitali, non chiedono soldi in cambio, e sono disposti a cedere il proprio letto a uno straniero sconosciuto. Lezione esemplare in questi tempi di paura e diffidenza. Certo, non hanno nulla da perdere, tutto da guadagnare.


Se penso a quelle situazioni mi assale un po' di rabbia. Gli africani che incontro a Padova spesso hanno perso quel senso di gratuità che li caratterizza. Non ci ha forse caratterizzato tutti alcuni decenni fa? Forse è il nostro ambiente che li plasma e li trasforma. Non sono disposti a fare niente per niente. Forse vedono i bianchi come persone dalle quali ricevere e basta, ingannandoli quando serve. Dopo tutto quello che i nostri antenati hanno fatto a loro! Ma l'africano non è così. Lo potrete sperimentare durante un viaggio in Africa, lontano dalle città e dalle antenne paraboliche. C'è il fango ma anche la gratuità. Non c'è l'elettricità e nemmeno l'egoismo. Per chi verrà in Camerun questa estate non mancheranno incontri arricchenti ed emozioni uniche.


lunedì 19 gennaio 2009

LETTERA DA NGAMBE' TIKAR

Dopo un po' di tempo di attesa è arrivato un "segnale di fumo" dal villaggio di Ngambè. Del resto è molto difficile comunicare con Internet! Il testo è in francese e ve lo lascio tradurre, soltanto una frase vorrei evidenziare: l'estate prossima saremo accolti calorosamente.

Chère Cecilia, je suis très ravi de recevoir l'e-mail de l'association "Macondo" .
Je viens à peine de le reccvoir. Je partage tout à fait les mots d'amitié et de fraternité que vous m'adressés . Quant à votre visite soyez en rassurés, vous serez accueillis chaleureusement. Vous pouvez vous y préparer tranquilement.
Par rapport au projet je n'ai pas encore toutes les données chiffrables , mais je veillerai de les en avoir très prochainement et vous en ferai part . D'ici là recevez le souhait de tous les meilleurs voeux de cette année qui commence à peine. Je renouvelle les sentiments d'amitié et de fraternité en Eglise-Famille de Dieu à tous les membres de votre association.
Père Jacques YANGA,
Cssp.Curé de la Paroisse Saint François d'Assise Ngambè-Tikar .
téléphone +23799334060

domenica 18 gennaio 2009

IL DOVERE DELLA VERITA'

Con dolore la Sinistra Cristiana dichiara la propria impotenza, come del resto è di tutti, di fronte alla tragedia della guerra su Gaza. È giusto fare manifestazioni di protesta, presidi, appelli e cortei, è necessario che i governi esercitino una risoluta pressione su Israele, ma non è possibile fare molto di più. Il problema supera infatti le attuali capacità della politica e forse della stessa cultura dell’Occidente. È il problema del rapporto di Israele con le nazioni, ed è quello dei rapporti delle grandi potenze mondiali, e segnatamente degli Stati Uniti, con i popoli “non allineati” e i soggetti politici non obbedienti. Perché i palestinesi possano vivere, Israele non perda se stesso, l’Occidente ritrovi la strada e ci sia la pace, tali rapporti devono essere radicalmente cambiati.
Resta però il dovere della verità, la cui efficacia politica, benché ignota ai più, è superiore a quella della propaganda e della menzogna. Tale dovere comporta che niente sia taciuto delle cose che pur nel diluvio delle informazioni restano nascoste.
(Raniero la Valle)

Perché una cosa sia chiara a tutti: l’unica speranza di porre fine alla barbarie in Palestina sta nella presa di posizione decisa dell’opinione pubblica occidentale, nella sua ribellione alla narrativa mendace che da 60 anni permette a Israele di torturare un intero popolo innocente e prigioniero nell’indifferenza del mondo che conta, quando non con la sua attiva partecipazione. Ma se gli intellettuali non fanno il loro dovere di denuncia della verità, se cioè non sono disposti a riconoscere ciò che l’evidenza della Storia gli sbatte in faccia da decenni, e se non hanno il coraggio di chiamarla pubblicamente col suo nome, che è: Pulizia Etnica dei palestinesi, mai si arriverà alla pace laggiù. E l’orrore continua. Essi, di quegli orrori, hanno una piena e primaria corresponsabilità.
(Paolo Bernard)

Forse sarebbe ora di ascoltare chi la vede diversamente da noi senza sparargli in viso.
Forse sarebbe ora di imparare dalla storia e non diventare carnefici dopo essere stati vittime.
Forse sarebbe ora di appoggiare chi vuole la pace e non vendere armi o finanziare chi vuole la guerra.
Forse sarebbe ora di vedere film ebraici come ''Walzer con Bashir'' e capire quanto solo un israeliano possa osare dire certe cose senza essere tacciato di antisemitismo.
Forse sarebbe ora di chiederci SE siamo democratici (allora anche Hamas ha vinto le elezioni...) e se stiamo al gioco solo se ci conviene...
Forse sarebbe ora di togliere il diritto di veto all'ONU...
Forse sarebbe ora di dire che l'integralismo, sia esso musulmano, cristiano, ebraico, induista, ateo, comunista, fascista, altri non è che odio.
Forse sarebbe ora di cambiare, a partire da noi stessi, per l'umanità.
Forse.
(Sherabdorje)

sabato 17 gennaio 2009

KING, LULA E OBAMA

ORA TOCCA A NOI!

[...]E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho un sogno. E' un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali. Io ho un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza. [...] Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho un sogno, oggi!
(Parte del discorso pronunciato da Martin Luther King a Washington il 28 agosto 1963)


Sono felice e con la coscienza tranquilla. Ho fatto tutto quello che potevo e ho girato il Brasile con un messaggio di integrazione nazionale e di sviluppo regionale. [...] Io penso che il Brasile stia vivendo un momento magico di consolidamento del processo democratico. [...] Sono grato in questo momento alle persone che si sono fidate di me, al popolo brasiliano che in vari momenti è stato indotto ad avere dei dubbi contro il governo. Ma il popolo sapeva distinguere quello che era vero da quello che era falso. [...] Continueremo a governare il Brasile per tutti ma continueremo a dare più attenzione a coloro che hanno più bisogno. I poveri avranno la preferenza del nostro governo.
(Parte del discorso pronunciato da Luiz Inacio Lula da Silva a Brasilia il 30 ottobre 2006, alla vittoria del suo secondo mandato alla presidenza del Brasile.)


[...]In queste elezioni si sono viste molte novità e molte storie che saranno raccontate per le generazioni a venire. Ma una è nella mia mente più presente di altre, quella di una signora che ha votato ad Atlanta. Al pari di molti altri milioni di elettori anche lei è stata in fila per far sì che la sua voce fosse ascoltata in questa elezione, ma c'è qualcosa che la contraddistingue dagli altri: Ann Nixon Cooper ha 106 anni.

È nata a una sola generazione di distanza dalla fine della schiavitù, in un'epoca in cui non c'erano automobili per le strade, né aerei nei cieli. A quei tempi le persone come lei non potevano votare per due ragioni fondamentali, perché è una donna e per il colore della sua pelle. Questa sera io ripenso a tutto quello che lei deve aver visto nel corso della sua vita in questo secolo in America, alle sofferenze e alla speranza, alle battaglie e al progresso, a quando ci è stato detto che non potevamo votare e alle persone che invece ribadivano questo credo americano: Yes, we can. Nell'epoca in cui le voci delle donne erano messe a tacere e le loro speranze soffocate, questa donna le ha viste alzarsi in piedi, alzare la voce e dirigersi verso le urne. Yes, we can. Quando c'era disperazione nel Dust Bowl (la zona centro meridionale degli Stati Uniti divenuta desertica a causa delle frequenti tempeste di vento degli anni Trenta, NdT) e depressione nei campi, lei ha visto una nazione superare le proprie paure con un New Deal, nuovi posti di lavoro, un nuovo senso di ideali condivisi. Yes, we can. Quando le bombe sono cadute a Pearl Harbor, e la tirannia ha minacciato il mondo, lei era lì a testimoniare in che modo una generazione seppe elevarsi e salvare la democrazia. Yes, we can. Un uomo ha messo piede sulla Luna, un muro è caduto a Berlino, il mondo intero si è collegato grazie alla scienza e alla nostra inventiva. E quest'anno, per queste elezioni, lei ha puntato il dito contro uno schermo e ha votato, perché dopo 106 anni in America, passati in tempi migliori e in ore più cupe, lei sa che l'America può cambiare. Yes, we can. Oggi abbiamo l'opportunità di rispondere a queste domande. Questa è la nostra ora. Questa è la nostra epoca: dobbiamo rimettere tutti al lavoro, spalancare le porte delle opportunità per i nostri figli, ridare benessere e promuovere la causa della pace, reclamare il Sogno Americano e riaffermare quella verità fondamentale: siamo molti ma siamo un solo popolo. Viviamo, speriamo, e quando siamo assaliti dal cinismo, dal dubbio e da chi ci dice che non potremo riuscirci, noi risponderemo con quella convinzioni senza tempo e immutabile che riassume lo spirito del nostro popolo: Yes, We Can. Dio vi benedica e possa benedire gli Stati Uniti d'America.

(Parte del discorso pronunciato da Barak Obama a Chicago il 5 novembre 2008)


Ora di dadi sono stati lanciati! E non dobbiamo chiederci cosa ha fatto M. Luther King, cosa sta facendo Lula o cosa farà Barak Obama. Dobbiamo chiederci che cosa ciascuno di noi farà per rafforzare le basi popolari della governabilità del proprio Paese. Non illudiamoci che sarà una persona, da sola, a cambiare le sorti di questo mondo.

giovedì 15 gennaio 2009

FILM SU ANNA POLITKOVSKAJA


Anna Stepanovna Politkovskaja (New York, 30 agosto 1958 - Mosca, 7 ottobre 2006) è stata una giornalista russa molto conosciuta per il suo impegno sul fronte dei diritti umani, per i suoi reportage dalla Cecenia e per la sua opposizione al Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin.
Nei suoi articoli per Novaja Gazeta, quotidiano russo di ispirazione liberale, la Politkovskaja condannava apertamente l'Esercito e il Governo russo per lo scarso rispetto dimostrato dei diritti civili e dello stato di diritto sia in Russia che in Cecenia.
Il 7 ottobre 2006, Anna Politkovskaja viene assassinata nell'ascensore del suo palazzo, mentre stava rincasando. La sua morte, da molti considerata un omicidio operato da un killer a contratto, ha prodotto una notevole mobilitazione in Russia e nel mondo, affinché le circostanze dell'omicidio venissero al più presto chiarite.
Anna Politkovskaja, martire per la libertà d'informazione, ha molto da insegnarci. In un periodo in cui i mezzi d'informazione pubblica sono largamente manipolati da interessi politici particolari, come vediamo per l'occupazione israeliana a Gaza, chiediamo per i giornalisti il coraggio di riportare i fatti nella loro oggettività. Svelando, se occorre, giochi sporchi, accordi compromettenti, interessi individuali dannosi al bene comune. Ormai, chi ci racconta la verità?
Lunedì 19 gennaio 2009, alle 20.30, verrà proiettato per la prima volta in Italia, il documentario che svela i retroscena della morte della giornalista russa. Presso il centro culturale san Gaetano, in via Altinate a PADOVA. Introducono la serata Francesca Sforza, corrispondente da Mosca de La Stampa, e Rita Pennarolo, condirettore de La voce delle voci.

L'AFRICA IN GUERRA


Nonostante la guerra a Gaza ci stia impressionando, soprattutto per le scene di centinaia di vittime innocenti, nel mondo altre guerre continuano a spargere sangue. Non parliamo dell'Africa! L'Africa appare costantemente in guerra. Anche se la televisione non sempre ne parla, del resto i nostri occhi si abituano in fretta a scene ripetitive! Fame, profughi, crisi senza fine e soprattutto senza cause evidenti. Per spiegarli si fa spesso ricorso ad antichi retaggi di conflitti "ancestrali". La realtà è ben diversa: nelle guerre del continente si giocano - spesso con armi modernissime - lotte di potere e strategie di mercato. "Signori della guerra" e imprese, potenze straniere e politici locali si scontrano e si alleano, alternano violenza e trattative, pianificando strategie con l'uso di deliberate tecniche di consenso: l'appartenenza a un popolo, la lingua, la cultura, la religione diventano così strumenti per mobilitare le coscienze e legittimare le peggiori atrocità. E mentre il continente continua a cedere le proprie risorse a vantaggio di pochi, la guerra diventa parte di un sistema economico che si colloca in pieno all'interno dei processi di mondializzazione.

Gli africani stessi che incontro, mi parlano di guerre legate alla differenza di religione o di tribù. Balle! E anche se fosse, un conto è combattere con armi leggere, un conto è farlo con fucili, bombe e carriarmati. Il mercato delle armi non è mai in crisi, e fa comodo a qualcuno far nascere e alimentare conflitti. Altrimenti le armi scadono!

Vi invito a leggere il libro di Alberto Sciortino, "L'africa in guerra. I conflitti africani e la globalizzazione", Ed. Baldini Castoldi Dalai, 2008.

lunedì 12 gennaio 2009

LE PAROLE SEPOLTE DI UN CONTINENTE SCONOSCIUTO



di Pedro Miguel
Angolano, filosofo e antropologo, docente presso l’Università degli Studi di Bari

Quando i conquistatori sono giunti per la prima volta nel continente africano, l’Africa era già in piedi: mangiava, parlava, aveva la propria cultura. Un aspetto della sua cultura era il culto della parola. Ma appena giunti, i navigatori, gli scopritori, i conquistatori, pensando che la loro cultura fosse l’unica cultura degna di questo nome, cominciarono a distruggere la cultura africana per imporre la loro. Così facendo, sacrificarono anche le parole africane, che vennero sepolte. Ma l’africano non si rassegnò alla perdita delle sue parole e negli anni ’60 cominciò a manifestare apertamente il proprio dissenso, a reagire contro la soppressione delle sue parole. I capi africani cominciarono nuovamente a parlare: Hailé Selassié, Kwame Nkrumah, Léopold Sedar Senghor, Agostino Neto, Amilcar Cabral. Questi autori cominciarono a protestare finché finalmente giunsero le sospirate indipendenze. Essi credevano che con l’indipendenza politica le parole africani avrebbero ripreso vita e forza, ma dovettero ben presto ricredersi. Al tempo della lotta per l’indipendenza i capi propugnavano i valori tradizionali africani: ospitalità, rispetto della parola, rispetto dell’anziano, del bambino, solidarietà, condivisione. Il popolo condivideva i loro discorsi, li applaudiva, li seguiva. Ma. una volta raggiunta l’indipendenza, molti capi africani cambiarono discorso. Accantonarono i valori tradizionali africani e assunsero i valori del mondo occidentale, non quelli positivi, ma quelli della minoranza occidentale corrotta: individualismo, egoismo, corruzione, mancanza di condivisione, ecc.
Così oggi la parola dei miti, la saggezza ancestrale, i proverbi, i racconti rischiano di essere nuovamente sepolti, con l’aggravante della connivenza degli africani. L’Africa perde le sue parole con la connivenza degli stessi africani.
Che fare allora? Bisogna fecondare un terreno nel quale le parole africane possano svilupparsi e crescere. Questo terreno può essere solo quello che ha sempre caratterizzato il popolo africano: la democrazia universale. Sembra decisamente fuori luogo parlare di democrazia in Africa, ma così non è e voglio brevemente illustrare quest’aspetto.
La democrazia è il valore che è stato maggiormente sottolineato anche in Occidente nel corso del XX secolo, che ha visto la nascita e la morte del fascismo, del nazismo, lo scoppio di due guerre mondiali, il crollo dell’ideologia sovietica. Uno dei principali eventi dell’Europa del XX secolo è stato certamente quello della ripresa e del consolidamento della democrazia.
Non è certamente facile parlare di democrazia nel contesto africano e soprattutto di questi tempi. Anzitutto, perché si potrebbe obiettare che la democrazia è un concetto occidentale e che è in qualche modo una sorta di imposizione in Africa. In secondo luogo, perché si dubita della possibilità di instaurare la democrazia in paesi poveri. Prima di rispondere a queste due obiezioni, indico brevemente ciò che io intendo per democrazia. Nel volume Democrazia degli altri, Amartya Sen, premio Nobel per l’economia (1998), così definisce la democrazia: «La democrazia è la partecipazione popolare alle discussioni dei problemi di governo». Perciò, la democrazia non è solo il governo della maggioranza. Non si può ridurre la democrazia unicamente alle votazioni pubbliche, perché le votazioni possono essere truccate, le informazioni diffuse sbagliate. In base alla definizione di Amartya Sen, la democrazia esiste in tutti i tempi, presso tutti i popoli. In Europa la democrazia è nata nell’antica Grecia e poi è stata spazzata via dal dispotismo. In America è stata introdotta con la Rivoluzione americana del 1776 e con la successiva Costituzione americana. In Europa è stata brevemente ripristinata con la Rivoluzione francese e con la relativa Costituzione del 1791. In India, nel XVI secolo, il grande imperatore Moghul proclamava la democrazia e favoriva il dialogo fra le religioni, quando a Roma si bruciava Giordano Bruno nel Campo dei fiori. Nel XII secolo, il filosofo ebreo Maimonide, costretto a scappare da un’Europa intollerante, venne accolto dal mondo arabo allora certamente più democratico e tollerante. Nel mondo africano esistono vari esempi di democrazia. Nella sua autobiografia, Il lungo cammino verso la libertà, parlando del suo villaggio, Nelson Mandela scrive: «Ognuno aveva la facoltà di parlare; il bambino ascoltava questi discorsi. Era la democrazia nella forma più pura. Poteva esservi una gerarchia di importanza fra gli oratori, ma tutti venivano ascoltati». Quindi democrazia come partecipazione popolare alle discussioni che riguardano il governo di un villaggio, di una famiglia, di un paese. Fortes e Pritchard nel volume African Political Systems affermano che le strutture dello stato africano presuppongono che re e capi governino in base al consenso. Parlando delle riunioni dei villaggi in Sierra Leone, mons, Biguzzi afferma che in quelle riunioni si disseppelliscono le parole che sono state sepolte anche con la convivenza degli africani. Ora quelle riunioni non dovrebbero coinvolgere solo gli africani, ma anche il mondo occidentale. Forse ricorderete il mito greco nel quale si parla di un re che aveva abituato i suoi cavalli a mangiare carne umana. Ogni volta che in città giungevano stranieri e immigrati, il re li arrestava e li dava in pasto ai suoi cavalli. Ma, venuti a meno gli stranieri e gli immigrati, i cavalli, ormai abituati a mangiare carne umana, cominciarono a mangiare i membri della corte, i famigliari del re e infine lui stesso. Ciò significa che non esiste un mondo indipendente da un altro. Siamo tutti nella stessa barca e tutti direttamente coinvolti, come ha dimostrato ancora una volta lo tsunami, che non ha ingoiato solo abitanti del Terzo Mondo, ma anche abitanti del Primo Mondo che erano andati a godersi le spiagge del Terzo Mondo. Il dilemma non è fra tradizione e passato, progresso e futuro, ma fra indipendenza-autonomia e dipendenza-omologazione. Ritornare alle proprie radici non significa contemplare e magnificare il passato, ma ritornare alla vita. Le radici di una pianta non sono il suo passato ma sono la sua vita. Lo spazio di democrazia che è sempre esistito in tutte le culture e in tutti i tempi è lo spazio nel quale circolano i problemi della famiglia, del villaggio. Occorre ricuperare questi spazi per poter disseppellire le parole sepolte dal mutismo delle culture che non hanno voluto ascoltare altre culture.

martedì 6 gennaio 2009

L'AFRICA SULLE STRADE



Il mal d'Africa mi spinse, alcuni anni fa, a fermarmi lungo le strade della mia città per incontrare le ragazze nigeriane vittime della tratta. Da allora la mia vita è cambiata. Adesso ho l'Africa in casa, quando guardo mia moglie e le mie figlie. Questa meravigliosa esperienza sta diventando ricchezza, non solo per me.
Ieri sera sono andato a trovare Jessica su invito di un amico, conosciuto da poco. Dovevo fare da intermediario e capire quali potrebbero essere i prossimi passi per rendere il rapporto felice e stabile. La relazione tra due persone di differente cultura non è semplice, occorrono ulteriori strumenti e maggior pazienza. Ma non tardano ad arrivare soddisfazioni e benessere.

La motivazione principale che frena molte ragazze ad uscire dalla tratta è la paura. “É indispensabile fermare le politiche repressive considerando che le retate, gli arresti, gli avvii nei CPT, i rimpatri sono un'ingiusta persecuzione e alimentano il clima di paura nel quale le vittime della tratta non possono maturare la scelta di fidarsi di operatori, enti, forze dell'ordine, istituzioni.” afferma Isoke Aikpitanyi, nigeriana, ex-vittima della tratta (nella foto).

Jessica mi disse che è stanca di “scopare”, ma deve finire di pagare il debito alla mamam. Poi potrà cominciare una nuova vita e farsi una famiglia. Le auguro di cuore che il suo sogno possa realizzarsi.

lunedì 5 gennaio 2009

IL MAL D'AFRICA




"L’Africa mi ha messo in contatto con le mie emozioni più profonde…. Esiste il mal d’Africa, io l’ho provato ed è qualcosa di lacerante… uno strappo che ti lascia una nostalgia infinita, il senso del paradiso perduto. Beninteso, quella era un’Africa serena, non piagata da guerre civile, fame e malattie.



A Ngambè Tikar (nella foto) la natura è generosa: la giungla offre banane, cacao, c’è il mais, l’ananas, i pesci sui fiumi e animali da cacciare. Non fa freddo, ci sono le due stagioni e in giungla tutto cresce velocemente: vi sono anche 3 raccolti l’anno. Ci sono serpenti velenosi (il mamba verde: ne ho visto uno schiacciato lungo la strada battuta del villaggio).



La gente costruisce ancora i tam tam, la domenica è vestita benissimo, pulitissima e coloratissima. Ho assistito ad una messa della Vigilia in cui l’atmosfera era festosa e tutti ballavano e cantavano con quel senso del ritmo che scorre loro nel sangue….



Vicino al villaggio ce n’è un altro di pigmei: quelli un po’ più grandi rispetto a quelli del Congo. Sono ahimè rovinati dall’alcol eppure a Ngambè Tikar dicono che quando devono finire qualche lavoro riescono a tenere lontana la pioggia perché hanno poteri magici…".

(Alessandra di Treviso, è stata a Ngambè Tikar nel 2000)




E' bello sapere che qualcun'altro è passato per il villaggio di Ngambè Tikar, e che quell'incontro ha lasciato un segno indelebile. Le parole sopra citate possono incoraggiare, coinvolgere e contagiare. Esiste davvero il mal d'Africa, ma non dell'Africa delle grandi città, costruite sul modello di quelle del Nord del mondo, tra smog e baraccopoli. Di quella dei villaggi, piuttosto, dove si respira ancora il calore della vera cultura africana, fino a quando non verrà contaminata completamente dal miraggio dello sviluppo occidentale moderno.
Lo so, ci sono anche i serpenti. Ma l'importante è non disturbarli!!!

sabato 3 gennaio 2009

PERCHE' UN VIAGGIO?


Perchè rischiare di fare un viaggio in Africa? Senza nessuno scopo umanitario preciso o l'indirizzo di un villaggio turistico sicuro? Cerco di interpretare i pensieri/sentimenti di alcuni: "Da una parte mi piacerebbe fare un'esperienza così forte, dall'altra ho paura, e poi non so cosa farò l'estate prossima."

Nella società del precariato, non abbiamo mai la certezza di quello che faremo il mese prossimo, per questioni di lavoro, di affetti, di impegni vari. Allora diventa importante darsi delle priorità. Se non sarà quest'anno sarà l'anno prossimo o più avanti. Ma l'importante è darsi un obiettivo e lottare per raggiungerlo. Per questo tipo di viaggio non ci sono pubblicità accattivanti o inviti insistenti. Del resto non ci sono vantaggi economici per nessuno! Ognuno è libero di decidere. Quello che posso dire è che sarà un'esperienza unica. Vivere a contatto con la gente locale, spostarsi di villaggio in villaggio, incantarsi davanti alla bellezza della novità...scoprirsi nudi o semplicemente rivestiti di essenzialità...

Vi aspetto DOMENICA 11 GENNAIO alle ore 16, al centro culturale ZIP, via Quarta Strada 7, zona industriale di Padova. Sarà presente anche Giuseppe Stoppiglia, presidente dell'associazione Macondo ONLUS, alla quale facciamo riferimento.