lunedì 30 marzo 2009

JOSE' MARIA CASTILLO E LE RELIGIONI

Temi come quelli che riguardano la "croce" e il "sacrificio" saranno sicuramenti trattati nelle liturgie cristiane quaresimali in attesa della pasqua. In molti di noi è presente il desiderio di conoscere, di riflettere, di confrontarsi, di porsi domande su quanto si vive e scoprire le ricadute negative e drammatiche che possono esserci attraverso il nostro vivere da “religiosi” e non da uomini che seguono un progetto straordinario di vita altra.
Queste hanno una ricaduta grave sull’umanità, sul sistema globale dell’economia, della giustizia della dignità umana. Il carissimo biblista Ortensio da Spinetoli dice “Finché ci saranno le religioni, nel mondo imperverseranno guerre e conflitti fra i popoli".
In occasione della prossima visita in Italia del famoso teologo spagnolo Josè Maria Castillo (vediamo se riusciamo ad organizzare qualcosa a Padova), vorrei riprendere un suo breve intervento.
"Le religioni da sempre fanno credere che la povertà, la sofferenza, l’espiazione ecc...
sono la volontà di Dio ma ciò è solo una strisciante strategia per giustificare il proprio potere (economico sociale e “spirituale”) “offrendo” una visione deviante di quello che è il suo volto, anche se scioccamente presumiamo di tracciarne i lineamenti, cosa per noi impossibile perché Dio appartiene alla sfera del trascendente e non può essere valutato e misurato nell’immanente, facendo una lettura antropologica di esso".
Per Castillo le conseguenze di questa, ricadono sugli uomini che si sentono sottomessi, dipendenti, sempre indegni e in colpa. La religione è la ricerca di Dio, ma il pericolo delle religioni è cercare Dio solo nel divino, umiliando l’umanità a partire da se stessi. Il volto, che Gesù ci ha rivelato è quello di un Dio che mostra il suo agire nella storia, un agire teso ad umanizzare l’uomo, percorso che lo conduce alla condizione divina, spesso Gesù nel vangelo sottolinea, che quello che conta è la somiglianza nelle azioni del vivere quotidiano, “Siate come il Padre vostro", invece inconsapevolmente l’uomo scinde le cose, fa moltissimi ed inutili gesti religiosi, come da placare un dio pagano, offrire cose per avere la sua benevolenza ma tutto questo non appartiene a Dio. Possiamo dire che in un paese dove non c’è una fede adulta c’è molta invadenza del potere religioso. Castillo si è domandato a cosa serve la fede se non si riesce a fare una
società più umana dove la gente si sente felice o almeno nella gioia?…
Quindi c’è bisogno di comprendere in cosa consiste la fede, non nell'osservanza, nella sottomissione, ma nella fiducia nel
progetto di società fraterna.

domenica 29 marzo 2009

LA PRIMAVERA DELLA CHIESA

Sono stato a Torino per la presentazione del mio libro "Bianco e nera" nella sede di un'associazione interculturale. L'incontro è stato molto interessante. Accanto a me c'era don Franco Barbero che mi ha introdotto con affetto e stima. Ho trovato persone mature, in ricerca, con uno sguardo aperto, disponibili all'ascolto e al confronto. Ho respirato un bisogno di autenticità, che spesso stenta ad essere presente nei luoghi istituzionali della Chiesa.
Sono tanti i grppi che in Italia si trovano a leggere la parola di Dio, senza gli occhiali devianti del magistero, ma nella mia città e più in generale nel mio Veneto bigotto, la strada è ancora lunga.
Però sento che vale la pena continuare ad insistere su questo punto, affinchè sempre più persone riescano ad aprire gli occhi, a pensare con la loro testa, alla luce del loro vissuto, in un continuo atteggiamento di dialogo e di confronto, anche critico se serve. Credo in una fede comunitaria non perchè obbediente e sottomessa a dogmi contingenti, ma perchè costruita insieme alle persone che si pongono con onestà davanti a Dio, agli altri e soprattutto a se stesse. Credo in una fede incarnata nella vita, fatta di economia e di politica, di cultura e di scienza, di relazioni e di cose.
Sento, percepisco dei piccoli germogli di speranza dentro questa chiesa in crisi. E' la resurrezione delle persone che conta e non tanto quella di una struttura che difficilmente è riuscita a liberare le persone dalla morte. E' la resurrezione delle persone che conta...

martedì 24 marzo 2009

LA MORTE INEVITABILE DI MONS ROMERO

Le morti precoci, tremendamente inutili e facilmente evitabili, come quelle delle due ragazze uccise dalla calca festante nello stadio Dos Coquerios di Luanda durante l'incontro di Benedetto XVI con i giovani dell'Angola, ci provocano rabbia. Ci sono anche non-vite che, in alcune circostanze e per alcuni partiti, valgono più di altre vite, come mi è parso di capire dalla recente vicenda di Eluana Englaro. E ci sono morti precoci inevitabili che rendono quella persona più viva che mai, come le morti dei grandi profeti come Gesù o Gandhi. “Se mi uccideranno, risorgerò nel popolo salvadoregno!” Così si è espresso Mons. Oscar Romero, vescovo di San Salvador, quando sentiva che la sua vita era in grave pericolo. Ventinove anni fa, il 24 marzo del 1980, “il martire latinoamericano per antonomasia”, venne infatti ucciso da un sicario mentre celebrava la messa feriale. La sua colpa è stata quella di essersi intromesso negli affari perversi di quel governo, predicando una liberazione non soltanto spirituale ma anche fisica, reale. Passano gli anni e il suo esempio non tramonta, perchè il martirio ha reso spaventosamente credibile ed efficace la sua parola. Mons. Romero rimane un “simbolo emblematico” non solo per l'opzione fondamentale dei poveri ma soprattutto per le sue posizioni conflittuali nei confronti del potere dello Stato e di quello del Vaticano.
Nelle nostre città della “tolleranza zero”, delle “classi ghetto” e delle ronde fai-da-te, la voce fioca e insicura della Chiesa istituzionale a favore dei più deboli fatica a diventare prassi comune per i suoi fedeli. Come l'arcivescovo Romero riuscì a istituzionalizzare l'opzione per i poveri nella sua chiesa locale, rendendola da scelta personale, meramente individuale, a scelta comunitaria di tutta una Chiesa locale, così sarà indispensabile elaborare e avviare specifici progetti con itinerari pastorali adeguatamente strutturati per le comunità parrocchiali in vista di una presa di coscienza collettiva e di un radicale risanamento etico, alla luce della profezia biblica e del magistero sociale.
L'inconprensione e l'ostilità da parte di Giovanni Paolo II nei confronti del vescovo di San Salvador, la volontà da parte degli organi vaticani preposti a non ricorrere alla sua causa di beatificazione, lo rendono un santo popolare senza particolari onorificenze, proprio come i poveri della sua terra ai quali ha donato la vita. Mons Romero rappresenta dunque il simbolo dell'inconciliabilità tra due modelli di Chiesa, quello della Chiesa istituzionale e quello della Chiesa della Liberazione, la Chiesa come “movimento di Gesù”. L'eterno e attuale dibattito, che morti evitabili e morti inevitabili mantengono acceso nella mente di praticanti in crisi e di cittadini laici.

lunedì 23 marzo 2009

IL PREZZO DELLA VISITA DEL PAPA IN ANGOLA

Ricordo i mega concerti di Michael Jackson di alcuni anni fa' quando alcune fans cercavano a tutti i costi di scavalcare le transenne e di avvicinarsi il più possibile al palco dove il loro idolo si esibiva, magari per incrociare il suo sguardo o semplicemente per ammirarlo da vicino, strappandosi i capelli e lanciando mazzi di fiori. Questa volta è il papa a diventare un idolo, la cui presenza sembra far dimenticare al popolo africano le normali regole della sopravvivenza: non calpestarsi l'un con l'altro, sotto il sole cocente. Soprattutto quando nessuna multinazionale ha il vantaggio di regalare bottigliette d'acqua in cambio della concessione di stampare il proprio marchio sui gadget dell'evento.
Dopo la visita in Camerun, l'incontro a Luanda tra Benedetto XVI e i giovani dell'Angola ha lasciato le sue tracce, non tanto per i discorsi sui preservativi o sull'aborto ma per i primi effetti che la folla accalcata, tra l'arsura e l'emozione, ha provocato: due giovani vittime dichiarate e una ottantina di feriti. Non era la prima volta che episodi del genere accadevano durante una visita del pontefice in Africa, da quando Giovanni Paolo II ha inaugurato questa forma di evangelizzazione. Ma forse è il normale prezzo da pagare perchè la religione cattolica non perda fedeli, soprattutto nei Paesi in continua crescita demografica e più soggetti a proposte religiose alternative, tra cui quella dei movimenti pentecostali o delle altre confessioni cristiane. Un prezzo talmente irrilevante che non conta difronte alle migliaia di vittime innocenti per la fame, per la guerra e per l'aids! Mentre Benedetto XVI – all'oscuro ancora di tutto - richiamava l'attenzione dei giovani ad opporsi con decisione alla stregoneria e agli spiritismi, “credenze che talvolta comportano persino sacrifici umani”, due ragazzi si stavano immolando davanti al massimo esponente della religione alla quale si sono convertiti.
La scenografia dello stadio Dos Coqueiros di Luanda potrebbe rimandarci agli episodi di violenza che hanno caratterizzato alcune partite del nostro calcio moderno, ma gli occhi della folla questa volta non erano concentrati sui movimenti di un pallone bianco ma su un uomo vestito di bianco e “venuto da molto lontano”, come ha cantato Minghi riferendosi a Karol Wojtyla. La forma dell'oggetto cambia, ma il colore è lo stesso e richiama alla mente il ruolo del bianco nella storia del popolo nero. Quando al colore della pelle dominante si aggiunge il credo della religione dominante il popolo schiavo per eccellenza continua ad abbassare il capo e accettare la sottomissione. Forse per quel senso di inferiorità che è stato trasmesso loro e al quale continuano ad obbedire. Forse perchè non vogliono sentirsi da meno dei loro fratelli italiani che si vantano di avere il Vaticano in casa, nonostante le presenze all'Angelus domenicale stiano diminuendo drasticamente.

N.B. I sacrifici umani che - secondo il papa - avvengono nelle religioni tradizionali africane saranno sicuramente inferiori rispetto alle morti che la religione del mercato moderno provoca alla popolazione mondiale. Per non parlare dei "semi del suicidio" che in India hanno causato migliaia di vittime, oppresse dai debiti del neocapitalismo. Il fondamentalismo islamico, la rivendicazione israeliana, l'accettazione rassegnata delle ingiustizie da parte della religione cattolica... sono tutte credenze che spesso comportano persino sacrifici umani.

venerdì 20 marzo 2009

JOSEPH RATZINGER E PAUL BIYA

Ho visto parecchie volte la reggia di Paul Biya, da più di 25 anni inspiegabilmente presidente della Repubblica del Camerun, dove in questi giorni il papa Benedetto XVI è approdato in visita apostolica. La sua foto è appesa ovunque, non solamente all'entrata degli uffici pubblici ma anche delle discoteche, luogo molto frequentato dagli africani. Ma la maggioranza dei camerunesi non è d'accordo con il capo dello Stato, che fa esattamente quello che vuole: l'ultima modifica alla costituzione è stata effettuata proprio un anno fa, contro il volere del popolo camerunese. Il sociologo Pierre Titi Nwel ci ricorda che “negli ultimi due mesi, il governo ha tagliato l'acqua agli abitanti della zona di Mvolyé (Yaoundé), dove si è recato il papa, con il pretesto che bisognava sistemare il luogo per la visita”. Nel discorso pronunciato proprio a Yaoundè Benedetto XVI ha affermato: “Di fronte al dolore o alla violenza, alla povertà o alla fame, alla corruzione o all'abuso di potere, un cristiano non può rimanere in silenzio”. Parole sacrosante ma ancora troppo diplomatiche e generiche, se pensiamo che sono uscite dalla bocca del pontefice in risposta al discorso di benvenuto del presidente Paul Biya, primo responsabile di un governo che non ascolta le proteste della gente e non utilizza le molteplici risorse per lo sviluppo reale del Paese. Come il ricco Zaccheo alla vista di Gesù è sceso dal sicomoro e ha deciso di restituire ciò che aveva rubato e di darlo ai poveri, speriamo faccia altrettanto Paul Biya, soprattutto non ostacolando l'iter democratico delle prossime elezioni nel 2010 e ritirandosi definitivamente dalla scena politica.

Se da una parte il Camerun, similmente a quanto accade per molti stati africani, spicca a livello internazionale per il grado elevato di corruzione, dall'altra, come giustamente ha evidenziato Ratzinger, gode di una situazione pacifica, soprattutto al nord dove cristiani di differenti confessioni, musulmani e vuduisti convivono tranquillamente. Nonostante i pronunciamenti ufficiali del pontefice, che ribadiscono la superiorità della religione cattolica rispetto agli altri credi, abbiano provocato dibattiti accesi, “a Ngaounderè - così mi ha spiegato il pastore luterano Martin, nell'estate del 2007 – la gente professa liberamente la propria fede e rispetta quella degli altri, con grande civiltà”.

martedì 17 marzo 2009

IGNORANZA PIU' CHE RAZZISMO

Noi veneti non siamo razzisti! Siamo piuttosto impreparati culturalmente e tecnicamente a gestire il fenomeno complesso dell'immigrazione e della multietnicità. Non siamo neppure così cattivi da negare un gesto di solidarietà a chi ne ha veramente bisogno. Sempre di corsa, lavoratori instancabili, con un forte senso del dovere.
Ma siamo stanchi e delusi del nostro stesso modo di comportarci nei confronti dello straniero. Finora lo abbiamo trattato come povero e come inferiore. Ci siamo prodigati a offrirgli assistenza, credendo di trasmettergli autonomia. Con un piatto caldo alle cucine economiche e un corso di italiano nella sede di un'associazione pensavamo di integrarlo nella nostra civiltà. Adesso ci siamo accorti che l'assistenzialismo non basta più e che occorre usare le maniere forti.
Probabilmente abbiamo sbagliato sin dall'inizio, quando abbiamo accolto i primi immigrati con quella mentalità del salvatore, che separa i fortunati dai bisognosi, gli avanzati dagli arretrati. E il gioco ormai era fatto! Bastava chiedere e tutto veniva dato, gratuitamente e abbondantemente.
Ma se all'inizio si dava con il sorriso adesso si butta addosso con la rabbia. Non vediamo un riscontro, un segno di riconoscenza per le fatiche fatte. E per di più non si può tornare indietro e ricominciare: viviamo concretamente in una città multietnica.
Non ci resta che sforzarci di conoscere. E capire che un medico di colore non è lo stesso che vende accendini in piazza o che spaccia in stazione. Che una giovane rumena laureata non è la stessa che assiste l'anziano in casa di riposo o che lavora sulla strada. Che una ricercatrice marocchina non è la stessa che pretende di fare la spesa gratis davanti allo sportello della Caritas. Conoscere e capire. Leggere e viaggiare. Guardare oltre il proprio naso e ascoltare non soltanto la propria pancia. Non ci resta che collaborare tutti insieme, padovani e stranieri, italiani e immigrati, per un rinnovamento del sistema giudiziario, che parte dalla nostra testa e arriva fino al Governo centrale. Se i “maestri” non praticano la giustizia, come potranno apprenderla e praticarla i loro alunni?
Sono semplici regole per non generalizzare e non arrendersi. Su cento extracomunitari che suonano il campanello di casa nostra per venderci un paio di calzini potrà essercene uno, soltanto uno, che vuole chiederci un'informazione o che deve consegnarci un pacco importante. Vale la pena affacciarsi al balcone e rispondere, poi ognuno farà le sue scelte.

domenica 15 marzo 2009

LIBERATI GLI OSTAGGI

Il vicentino Mauro D'Ascanio, l'infermiera canadese Laura Archer, un coordinatore sanitario francese, Raphael Meonier, e un altro dipendente sudanese, Sharif Mohamadin, erano stati prelevati mercoledì sera con un'irruzione armata nel presidio sanitario di Medici senza frontiere di Serif Umra, a 200 chilometri dal capoluogo del Nord Dafur, El Fasher.
Ora sono stati liberati e stanno bene. A loro vanno tutta la nostra gratidudine, la nostra riconoscenza e stima per quello che hanno fatto.

mercoledì 11 marzo 2009

SE ELUANA POTESSE PARLARE...



Cari amici/che,
Vi ringrazio per tutto il bene che mi avete voluto. Per i fiori, le candele, i messaggi, l'affetto espresso in mille modi.
Ringrazio il mio caro papà Peppino che per 17 anni ha vissuto dignitosamente il mio Calvario. Grazie, per il tuo coraggio, la tua onestà, la tua etica.
Dico “grazie” alle suore misericordine che tante cure mi hanno prodigato.
Ringrazio tutti i movimenti per la vita, anche quelli cattolici, per aver fatto di me una bandiera per tutelare la vita “dall'inizio al suo naturale tramonto”.

Però, però... adesso che vedo le cose nella luce, senza veli né squame di fanatismi e fondamentalismi, vorrei esortarvi a vedere le cose da un altro punto di vista.
A coloro che hanno fatto di me una campagna “per la vita”;
a coloro che hanno organizzato e partecipato a fiaccolate, veglie notturne, sit-in, battaglie politiche e religiose, a tutti voi che siete stati in ansia attorno al mio capezzale, mi viene da dire:
sorelle e fratelli, se vi sta proprio a cuore la VITA (“dall'inizio al suo naturale tramonto”), perché non fate la stessa campagna per quei milioni e milioni di bambini ai quali viene impedito di vivere non perchè gli hanno staccato il sondino dell'idratazione e della alimentazione, ma per molto meno? Forse che la mia vita vale più della loro? Perché non lottate perché gli venga riconosciuto il diritto minimo vitale ad un pezzo di pane?
Perché non fate ogni notte una fiaccolata per loro? Magari davanti al palazzo di vetro (ONU), oppure davanti al palazzo d'ogni governo, oppure davanti al Vaticano? Se gridaste almeno quanto avete urlato per me (sui media, in parlamento, nei TG), non sarebbe una buona maniera per scuotere la coscienza del mondo, svegliare le religioni?
Se amate la VITA sul serio, come dite, perché non chiamate per nome i “boia, gli assassini”, (non mio padre!), che per omissione, per omertà globale, “uccidono” tanti bambini con le armi della fame, della denutrizione, della dissenteria, dell'AIDS?
Per loro non c'è bisogno né di sondini né di costosissime macchine speciali, ma solo di buoni piatti di riso e di pastasciutta.
Un dubbio vi rilancio dalla mia nuova Vita: perché mi avete costretta a vivere mio malgrado per 17 anni, sottraendo, rubando agli affamati quello che spettava loro, non a me? Mi avete riconosciuto un diritto o un sopruso? Perché mi avete ridotto a vegetare?
Forse perché sono nata a nord del mondo la mia vita vale di più di quella di chi nasce a sud del mondo? Ma allora il fatto di essere bianca e cristiana è un privilegio o un castigo?
Care sorelle, voi, le “misericordine”, invece di curare dei morti, perché non correte a liberare dalla morte ingiusta e prematura tutti i bambini condannati a morte da tanta ignavia globale? Hanno meno diritto di tutti coloro come me, che sono condannati al supplizio di vivere ad ogni costo? Giorno e notte con aghi, sondini, marchingegni. Altro che accanimento terapeutico... è un accanimento di morte.
Qui, nella nuova vita, le vittime della denutrizione e delle guerre, continuano ad urlare: “Se sondini e macchinari sofisticati per il nord del mondo sono mezzi ordinari per vivere, perché per noi non vale lo stesso principio, quando ci accontenteremmo di molto meno? Avete forse diviso il mondo nella razza del nord e in quella del sud? Ieri si celebrava la razza ariana, oggi quella primo-mondiale? Ci sono popoli che, per il solo fatto di trovarsi per caso nell'emisfero nord del mondo, hanno più valore di quelli del sud del mondo? Sprecate sono le vittime della seconda guerra mondiale se abbiamo ancora a che fare con super-popoli, che si permettono quello che vogliono alle spalle dei non-popoli del sud del mondo? Che cosa è proprio naturale: la nostra morte per fame o il vostro vegetare grazie a un sondino del tutto artificiale?
Suvvia! Non potete neppure giustificarvi con quelle parole che continuano a scendere dai Calvari collettivi di oggi (favelas, baraccopoli, Gaza, Darfur, ecc.): “Padre della Vita, perdona loro, non sanno quello che fanno...”. Ma come? Con tanta teologia, tanta biotecnologia, tanta... non sapete far vivere i bambini che nascono per morire a causa di inezie come l'acqua potabile? E voi, “dottori della legge”, voi che vi fate chiamare “padri”, come fate a non sapere che un vero padre prima si preoccupa di dare da mangiare ai figli e poi, se ne avanza, mangia lui?”.
“Lasciateci andare...”, dicono più di 2.500 creature in stato di coma permanente, “non fateci vegetare ad ogni costo. C'è il diritto di vivere ma anche quello di passare a miglior vita. Se volete proprio fare i kamikaze per la vita, fatelo per i bambini che in Africa sono condannati a morire di AIDS o di fame solo perché viene negato loro una medicina, un piatto di cibo, un bicchiere d'acqua potabile”.
Per favore: non dite a mio padre che è un assassino, un boia. Questo sì che mi farebbe morire una seconda volta.
E a te, reduce dalla missione, a te condannato a fare da becchino ai “bambini nati per morire”, proprio loro ti mandano questo messaggio: “ Aveva ragione il Cristo a dirci: “Beati voi che piangete, perché riderete in eterno”. E' proprio vero: oggi ce la ridiamo dei politici prepotenti e anche dei prelati onniscienti, che impongono con la forza della legge civile ciò che non hanno saputo trasmettere con la forza dell'amore”.

(di Fausto Marinetti, dal Brasile)

lunedì 9 marzo 2009

PREPARAZIONE AL VIAGGIO

C'è ancora qualcuno che desidera aggregarsi al gruppo per venire in Camerun dal 31 maggio al 15 giugno 2009?

Il prossimo incontro, previsto per domenica 15 marzo alle ore 16, si svolgerà presso il centro culturale ZIP, via IV strada 3, a Padova (zona industriale).

Non sarà un viaggio impegnativo, faticoso... sarà un viaggio intenso ma anche divertente. Ci sarà la possibilità di conoscere uno stato africano e di incontrare la gente, di contemplare le meraviglie della natura e di ballare al ritmo della musica.

Molti luoghi comuni e pregiudizi etichettano l'Africa come un continente pericoloso, ricco solo di malattie e di serpenti velenosi. Eppure di bello e sicuro non esistono soltanto quei quattro villaggi turistici che di africano hanno solo le palme! Il viaggio che stiamo organizzando è ormai alla sua terza edizione e ha sempre superato le aspettative dei precedenti partecipanti.

Fede & Eliot

IL TEOLOGO SOTTO L'ALBERO

(...parte di un'intervista a Jean Marc Ela, teologo e sociologo del Camerun, ha lavorato per quattordici anni tra la popolazione kirdi del nord del Camerun, portando il messaggio di liberazione del Vangelo. Un lavoro che ha dato fastidio al potere e che lo ha costretto all’esilio in Canada dove è morto alcuni mesi fa)
Jean Marc Ela, lei è diventato teologo dopo aver fatto una tesi su Martin Lutero. Che cos’ha significato ciò per lei, e cos’è un teologo africano?
Il teologo africano deve cercare di comprendere come altri cristiani hanno tentato di leggere la Bibbia. La Riforma ha avuto luogo in un contesto storico in cui la chiesa aveva bisogno di un’innovazione profonda, che arrivasse alla radice delle cose. E la radice è il rapporto con Dio nella fede; ciò che Lutero ha voluto fare è restaurare la sovranità di Dio. Tutto il suo sforzo consiste nel dire: “Lasciate che Dio sia Dio”.
Questa preoccupazione fondamentale mi ha aiutato ad operare una sorta di rivoluzione copernicana a partire dal contesto africano. Il teologo africano che ha lavorato sul pensiero di Lutero non può non sottomettere a un libero esame il rapporto tra l’uomo africano e il Vangelo in un contesto storico in cui tutto il peso dell’Occidente grava su questo rapporto. Per me il teologo africano deve parlare di Dio a partire dal luogo dove la Parola di Dio ci trova. Questo luogo è l’Africa stessa, tenendo conto delle sfide delle nostre società e della tragedia della nostra storia. Dopo anni ho preso coscienza che l’Africa è un vero polo di rivelazione, un luogo dove Dio parla alla chiesa e al mondo.
Ho preso coscienza dell’insignificanza del cristianesimo occidentale per l’uomo africano. Questo cristianesimo è integrato a un sistema di dominazione nel quale Dio rischia di essere catturato dalle forze che ci opprimono. Ora bisogna che Dio sia Dio, e perché lo sia bisogna che Dio sia liberato da questa schiavitù.
La mia teologia prende come punto di partenza il fatto che il Vangelo non può essere realmente una forza di liberazione se non lo si libera dal cristianesimo occidentale, fondamentalmente associato a un sistema di dominazione dopo la conversione dell’imperatore Costantino.
Si ritrova questo virus imperiale nell’ossessione dell’autorità in seno al cattolicesimo romano.

Come si può fare una lettura africana della Bibbia?
La Bibbia deve essere considerata come il racconto di una liberazione da Mosè fino a Gesù Cristo, che è venuto nel mondo per liberare i poveri e gli oppressi. La sfida della povertà e dell’oppressione è al centro della Rivelazione. È per questo che la nostra teologia non può che essere una teologia della liberazione. A questo riguardo, l’Africa appare come uno dei luoghi della terra dove la creazione geme in attesa della liberazione.

In che modo lei, da teologo, ha operato in Africa?
Il mio lavoro tra i kirdi del nord del Camerun consisteva nel mettere le persone nella condizione di organizzarsi per uscire da ogni situazione di povertà e di oppressione in cui vivevamo. Ho tentato di risvegliare le coscienze delle persone sulla loro situazione, di condurle a riunirsi, a organizzarsi, a creare delle comunità. E all’interno di queste comunità formavo dei leader che potevano essere il motore del cambiamento. Un lavoro che doveva partire da cose molto concrete: mi occupavo essenzialmente di terra, d’acqua e di miglio. Quella gente vive in montagna, dove la terra è stanca e di esaurisce. E nelle aree pianeggianti molti contadini sono senza terra. Così ogni anno bisogna prendere in affitto dei campi dai grandi proprietari terrieri. Lo stesso vale per l’acqua… C’è poi un problema di tipo di colture: condurre la gente ad interrogarsi sul ruolo che devono avere le piante per l’alimentazione in un sistema agricolo incentrato sul cotone al quale sono dedicate le terre migliori. Per fare ciò di organizzavamo seminari di riflessione, ma anche corsi di formazione e di alfabetizzazione.
Ma i capi tradizionali, i notabili e le autorità amministrative non apprezzavano il mio lavoro. Mi rimproveravano di aprire gli occhi alla gente. Per quattordici anni ho continuato a farlo, poi me ne sono dovuto andare per le persecuzioni appunto a causa del messaggio che diffondevo.

Lei appartiene a quella che si chiama la teologia della liberazione applicata all’Africa. Si riconosce in questa definizione?
La mia riflessione teologica è nata nei villaggi. Precisamente sotto l’albero della palabre, dei colloqui, nelle montagne del nord del Camerun dove, la sera, m’incontravo con i contadini e le contadine per leggere la Bibbia con i nostri occhi africani. La mia teologia non è nata tra quattro mura di cemento. Non ho mai insegnato teologia in un grande seminario e nelle università cattoliche in Africa. Sono intervenuto in alcuni istituti di teologia, specie in Belgio e in Germania, ma in maniera puntuale e per condividere la mia esperienza sul terreno o per discutere sulle mie opere.
Concretamente la mia teologia è partita dalla riscoperta del Dio di cui parla una donna del Nuovo Testamento. Maria canta il Dio che nutre gli affamati e lascia i ricchi a mani vuote. Questo Dio è nello stesso tempo colui che rovescia i potenti dai loro troni.

Mi indica tre questioni prioritarie per l’Africa?
In estrema sintesi. La mia prima preoccupazione è ridare al Vangelo in Africa tutta la sua crediblità e la sua pertinenza; e ciò in rottura con il discorso teologico che si è sviluppato in Occidente. Va messa in luce la forza sovversiva della memoria del Dio crocefisso che noi dobbiamo riscoprire.
Un'altra preoccupazione è determinare il ruolo che deve essere accordato alla gioventù. Per me la gioventù rappresenta la speranza del nostro continente e non bisognerebbe che ricadesse nella storia della sofferenza che è la storia dolorosa del popolo nero. Ci vorrebbe una rottura con questa storia: un’esperienza che deve avere al centro i giovani.
Infine mi chiedo come si possa arrivare ad una civilizzazione dello stato in Africa. E dico “civilizzazione” perché lo stato è “decivilizzato” nella misura in cui è organizzato sulla barbarie. La barbarie si è imposta in Africa negli ultimi trent’anni attraverso un’economia politica fondata sulla gestione della violenza da parte di poteri che uccidono, spogliano, accaparrano e monopolizzano l’accesso alle condizioni di esistenza. È necessario passare da questa barbarie dello stato a uno stato civilizzato. Civilizzare lo stato è la grande sfida di oggi.

domenica 8 marzo 2009

FESTA PER QUESTE DONNE?

Festa delle donne. Paola è una donna, come tante, anche se purtroppo sente di esserlo a metà. Per questo le offro un bel mazzo di mimose nel giorno straordinario in cui le parole e i gesti quotidiani non bastano. Paola sta soffrendo molto perchè le sue passioni, la parte più autentica di lei deve essere inspiegabilmente repressa. Sì, anche lei si sente violentata nel giardino perduto dell'Eden. Non capisce i motivi di un tale degrado morale, la sua intelligenza è muta e insignificante di fronte a questa tragica situazione. Vorrebbe abbracciare pubblicamente il suo amato, accarezzarlo davanti ai suoi amici e parenti, mostrarlo al mondo intero. É una donna e come tutte le donne non si arrende. Persevera nella speranza di poter un giorno scalfire la corazza divina che impedisce a un ministro sacro di essere uomo. Il suo uomo è un prete, che ha conosciuto in un momento di particolare sofferenza. Si è aggrappata a lui, alle sue parole, al suo ruolo di salvatore e se ne è innamorata. Lui ci sta, incastra bene le cose, ma è affetto da sindrome della medusa, a volte si apre altre volte si chiude. A volte le promette un futuro insieme, altre volte le ricorda quella promessa di celibato fatta davanti al vescovo di Padova alcuni anni fa. E lei non riesce nè a lasciarlo nè a condannarlo, perchè lo capisce e lo ascolta. Trattata come tentatrice senza ritegno, ha perso le poche amicizie che aveva. I suoi familiari non sanno niente e non è il caso di informarli.
Paola ama di un amore clandestino, sincero ma ancora imperfetto, irregolare. Attende il riconoscimento da fuori per poter vivere la relazione alla luce del sole, senza il pericolo di ronde improvvise. É una donna e come tutte le donne attende con pazienza. E spesso attende invano. Perchè l'esito dell'eterna lotta tra la fedeltà a Dio e a se stessi e quella all'istituzione ecclesiastica e all'immagine di sè tarderà ad arrivare. Ma non per questo rinuncia ad amare, anzi ama gratuitamente il suo prete e lo ricarica per il suo ministero. Lui riscuote successo tra i fedeli e predica dal pulpito: “Dietro a un grande uomo c'è sempre una grande donna!” Parla d'amore ma è ancora bambino, principiante alla scuola della vita. Crede di amare Dio ma forse l'ha confuso con l'idea che ha di Lui. E Paola si sente donna a metà, nel giorno dedicato alle donne. A lei e a tutte coloro che vivono un rapporto d'amore nella clandestinità volontaria o involontaria, vanno i mie sinceri auguri.

sabato 7 marzo 2009

LA TECNOLOGIA NON E' NEUTRA

(tratto da una relazione di Raimon Panikkar)


La tecnologia non è neutra, perchè esige e condiziona il suo uso e anche il modo in cui la si deve usare. La tecnologia invece è considerata buona, anche se si ammette che è possibile farne cattivo usa.

Il discorso sulla neutralità è un discorso assiologico; consiste nel dire che né la scienza né la tecnologia hanno valore in se stesse. Non è vero. Potranno essere buone, cattive o ambivalenti, ma non neutrali. L'opinione comune tende a credere che la tecnologia sia buona, anche se è possibile farne cattivo uso. L'argomento principale si fonda su un ragionamento individualistico (che proprio per questo è molto convincente per i singoli individui): io faccio buon uso dell'aereo, del computer, della macchina, della televisione. I vantaggi per il singolo individuo sono innegabili.

La nostra tesi non sostiene ma suggerisce l'opinione opposta, e cioè che la tecnologia sia disumanizzante e quindi negativa, anche se individualmente si può farne buon uso. Per tale motivo sosteniamo non la distruzione, ma la nostra emancipazione dalla tecnologia. C'è una differenza essenziale tra technê (arte) e tecnologia. La prima, come modificazione della materia, utilizza fonti naturali di energia (macchine di primo grado): è un'invariante umana. Un martello (technê) è un oggetto buono, anche se possiamo farne cattivo uso. La seconda (techno-logia) è un'invenzione (geniale) della cultura occidentale. Uno strumento di tortura è un oggetto cattivo, anche se in casi eccezionali il suo uso può diventare buono, se si smette di utilizzarlo per la tortura.

giovedì 5 marzo 2009

I LIBRI CHE INTERROGANO

Dopo i libri di Corrado Augias "Inchiesta sul cristianesimo" e di Curzio Maltese "La questua. Quanto costa la Chiesa agli italiani", è disponibile in edicola quello di Marco Politi "La chiesa del no". Sono tutte riflessioni di uomini intelligenti, con un forte senso critico e una grande umanità. Non è semplice polemica, ma un servizio alla costruzione di una fede matura.

IL PIL DEVE CRESCERE SEMPRE?

Non lo so perchè!
Alcuni anni fa, economisti critici dello sviluppo economico moderno, mettevano in discusione l'equazione matematica secondo la quale ad un progressivo aumento del PIL nazionale corrispondeva un aumento del benessere della società. E il loro esempio è molto attuale!
Aumentando gli incidenti stradali aumenta il PIL. Come è possibile? Quando vi è un incremento dell'attività dei carri attrezzi e delle officine meccaniche, è stato comprato o venduto più sangue, i medici, gli infermieri e gli avvocati hanno lavorato di più... il PIL di un Paese cresce!
Il PIL ci dice che l'economia sta andando bene. Secondo gli economisti convenzionali, più il PIL è alto, meglio stiamo. Le famiglie coinvolte negli incidenti stradali si sentono meglio? Si sentiranno meglio se un economista dirà loro che a causa della loro sofferenza l'economia è migliorata? Cosa c'è che non va in questo quadro?

Adesso il mercato dell'auto è fermo e quindi il PIL è sceso, e si ha la percezione che stiamo vivendo peggio. Fino a quando continueremo a basare il nostro benessere, la qualità della nostra vita, sull'andamento del mercato finanziario o automobilistico?

Mentre parlo sono a casa, in cassa integrazione. Ma se provo ad andare aldilà del mio stipendio, mi accorgo che molte cose non vanno, che tutto questo sistema economico non funziona. Il mercato è giunto a saturazione. Forse tra qualche anno riprenderà ancora con maggior intensità la sua produzione, ma non è questo il punto. Mi chiedo piuttosto se il nostro pianeta riuscirà a contenere tutta la nostra produzione, se i rifiuti non copriranno le nostre campagne e i figli dei nostri figli avranno ancora lo spazio per correre. Non spetta a me trovare le alternative, e probabilmente sono già state pensate da anni. Solo che non riesco ad incazzarmi se non c'è lavoro... non riesco a credere nella produzione illimitata. Vorrei che rimanesse in eterna crisi la logica dell'usa e getta per lasciar spazio alla logica del riparare, del recuperare, del riutilizzare...

mercoledì 4 marzo 2009

PROGETTO NGAMBÉ TIKAR



Dove si realizza
Il “Progetto Ngambè Tikar” prende il nome dall'omonimo villaggio che si trova a 350 Km a nord dalla capitale politica del Camerun, Yaoundè. Immerso nel verde della foresta, dove abitano ancora alcune piccole comunità di pigmei, il villaggio di Ngambè Tikar è lontano più di 100 Km dalla prima strada asfaltata. La natura è generosa, offre banane, cacao, mais, ananas, i pesci sui fiumi e animali selvatici da cacciare. Non fa freddo, ci sono due stagioni, quella secca e quella delle piogge, e tutto cresce velocemente.


Quando nasce
Il “Progetto Ngambè Tikar” nasce in seguito al viaggio in Camerun nell'estate del 2007, quando un gruppo di giovani è stato accolto e ospitato per una settimana dalle famiglie di un villaggio sperduto nella foresta. Questa indimenticabile esperienza si è trasformata in un impegno a collaborare insieme per la realizzazione di un obiettivo comune che offra prospettive positive per entrambi i soggetti.


Qual è lo scopo
Lo scopo principale che anima il “Progetto Ngambè Tikar” non ha assolutamente il sapore dell'assistenzialismo, ma cerca semplicemente di sostenere attività pensate e create dagli abitanti del villaggio stesso. L'Association des Jeunes pour le Dèveloppement (Associazione dei giovani per lo sviluppo) riunisce i giovani per affrontare temi legati al futuro del villaggio, alle possibilità di lavoro in loco, all'università in città, alle problematiche che sorgono dalla relazione tra tradizione e modernità. Inoltre è presente l'Association pour l'enfance desheritee et handicapee (Associazione per i bambini disabili) che offre strumenti di sostegno a bambini colpiti da handicap fisici e mentali.


I tempi e le spese
Il disegno della struttura da costruire, è stato realizzato da un abitante del villaggio di Ngambè Tikar e cerca volutamente di rispettare l'arte locale. Essenzialità, funzionalità, semplicità. La spesa prevista, comprendente l'acquisto del materiale e la mano d'opera, si aggira attorno ai 65.000 franchi CFA (10.000 euro). I tempi di realizzazione della casa, che possono variare a seconda delle condizioni metereologiche, non dovranno superare i 6 mesi.


Come contribuire
Coloro che volessero offrire un contributo per sostenere il “Progetto Ngambè Tikar” potranno effettuare un versamento all'associazione Macondo ONLUS su bollettino postale al conto corrente n. 67673061 oppure attraverso un bonifico bancario alle seguenti coordinate: Veneto Bancafiliale di Cassola (VI) IT21 N 05418 60260 023570065869, specificando nella causale “Progetto Ngambè Tikar”. I soldi raccolti verranno consegnati, durante il viaggio, ai responsabili delle associazioni del villaggio per l'inizio dei lavori di costruzione della casa.

domenica 1 marzo 2009

RONDA ELETTORALE

A Padova è iniziata la campagna elettorale. Le ronde non sono altro che pubblicità ai partiti che si propongono come i salvatori di una situazione che, secondo i mezzi di informazione locale, sta degenerando, ma che in realtà è nella norma. Esistono rumeni stupratori, così come italiani. Ladri, delinquenti, spacciatori non hanno bandiere, aldilà di statistiche provvisorie e relative.
Lo slogan "sicurezza" è molto efficace, e ogni forma per gridarlo serve a tranquillizzare gente insicura, ma per altri motivi. Le ronde stanno diventando un ulteriore peso per le forze dell'ordine che sono già oberate di lavoro e in continua crisi di finanziamenti.
Ronde e fiaccolate anti-ronde, leghisti e no-global, la tensione continua e si basa su percezioni soggettive e contaminate da interessi personali e di partito. Padova è un mortuorio di sera, per questo motivo si notano facilmente gruppetti di stranieri che concepiscono la vita in altro modo. Non solo lavoro, non solo silenzio, non solo televisione. Siamo esseri sociali, che si realizzano nella relazione con gli altri. Ma questi, ahimè, son discorsi troppo impegnativi per chi urla: ordine! regole! pulizia etnica!