sabato 2 luglio 2011

La punizione che educa


Incontro con Cesare Moreno, "maestro di strada" a Napoli

Le frasi che riporto sono prese da alcune riflessioni di Cesare Moreno, maestro di strada a Napoli. Insegnante delle scuole elementari in aspettativa, sta svolgendo il suo servizio tra gli adolescenti abbandonati a loro stessi, nei quartieri di una Napoli con molti problemi. Non pretende di "salvarli" ma semplicemente di incontrarli e farli sentire amati, importanti, cittadini con un futuro davanti.
Mi ha colpito la sua lettura pedagogica sulla punizione. La punizione che educa è una punizione che non è espressione di violenza ma che permette a chi ha sbagliato di riscattarsi, di pagare onestamente il suo debito, di metterci una pietra sopra e ripartire da capo senza sensi di colpa o posizioni svantaggiate.


[...]Mi interrogo sul concetto di punizione. Mi è molto più chiaro il concetto di repressione, ossia quello di una azione che impedisce la realizzazione di offese alla legge, alla persona, alla comunità. Punizione invece ha il sapore di una sorta di espiazione, che quindi dovrebbe portare ad una interiorizzazione delle dolorose conseguenze dell’errore.


Le violazioni e le lacerazioni ci sono e sono pesanti. Cosa fare? Se noi siamo riusciti a costruire attraverso il confronto sistematico una piccola comunità, ogni lacerazione nel tessuto diventa una sorta di ‘scomunica’ (i nostri ragazzini del resto usano il termine ‘scompagno’ per mettere qualcuno fuori le regole dell’amicizia): noi sottolineiamo la reciprocità della scomunica: il singolo non riconosce la comunità come propria e la comunità non riconosce il singolo come proprio  membro. Da un movimento espulsivo reciproco occorre generare un movimento di ricomposizione, un appetenza del gruppo a ricostituire la propria unità che diventa anche spazio interiore di ciascuno a riaffermare una identità più forte attraverso ciò che il gruppo aiuta ad elaborare. Il lavoro dell’educatore consiste appunto in questo, nell’accompagnare il gruppo ed il singolo a ritrovare se stessi ogni volta che ci si perde, ogni volta che i “mal di pancia” - le emozioni elementari - prendono il sopravvento sul pensiero e sui legami.

Tutto questo lo chiamiamo “riparazione”, ossia un movimento teso a riparare quanto si è lacerato. Sotto questo aspetto se noi vogliamo ritornare al termine ‘punizione’ potremmo affermare il “diritto alla punizione”  come diritto a poter essere riammessi nella comunità; anzi potremmo dire che la comunità istituisce la nozione stessa di diritto come possibilità di regolare inclusioni ed esclusioni. La riparazione porta con sé anche gesti concreti tesi a ripristinare ‘lo stato dei luoghi’: luoghi fisici, luoghi dell’animo. Quando ci sono danni materiali i ragazzi possono anche essere chiamati a ripararli trasformando questo lavoro in una vera e propria unità didattica e non semplicemente una sanzione da pagare. Oppure, e questo è più significativo, ci sono formali scuse (non le abbiamo imposte  ma ci vengono offerte spontaneamente  dai giovani quando la discussione sull’errore ha raggiunto il suo scopo) o riconoscimento pubblico dell’errore.

In questo modo, attraverso la rievocazione e la ricostruzione dell’errore e dei suoi motivi, l’errore stesso può essere ‘archiviato’ il giovane riprende in mano il processo di crescita della persona e il suo posto nella crescita del gruppo.  Ancora più interessante è la ricostruzione e la riflessione su tutto il processo di rielaborazione dell’errore, perché in qualche modo si prende coscienza che la ‘sanzione’ è in realtà un aiuto a rientrare, che il gruppo ti offre una possibilità di riparazione.

1 commento:

  1. Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.

    RispondiElimina