lunedì 8 marzo 2010

DON CESARE CONTARINI RISPONDE?

LE QUATTRO PAROLE CHE RICORRONO SPESSO

Leggendo oggi su Il Mattino di Padova l'articolo sul "caso Spoladore" di don Cesare Contarini, attuale rettore del Collegio Barbarigo di Padova, ho riscontrato alcune retoriche somiglianze con un altro suo articolo che scrisse su La Difesa del Popolo, settimanale diocesano che al tempo dirigeva, proprio sul mio conto. Casualità?

Se un prete sbaglia, allora è un uomo, non un santo. Ma se è un uomo perchè non si mette sullo stesso livello dei laici quando è ora di fare delle scelte all'interno della Chiesa-popolo di Dio?

Se un'articolo turba la sensibilità delle gerarchie, allora il giornalista è malizioso o le cifre sono fuori dalla realtà.

Se i fatti sono troppo evidenti, si tira in ballo la fede come mezzo per guardare "oltre".

Infine, per apparire uomini di carità cristiana, si abusa del termine "fraternità" per augurare agli altri quello che, chi predica, probabilmente non la pratica.


CONFRONTATE LE DUE LETTERE E TROVATE LE QUATTRO PAROLE!

1. ERRORE-FRAGILITA'
2. DUBBIO
3. FEDE
4. FRATERNITA'


"Esce” un prete su quattro? Fanta-statistiche fuori dalla realtà

di Cesare Contarini

I preti fanno notizia. E certe notizie fanno colpo. Magari durano un giorno, ma intanto il botto è fatto. Così è stato per la presentazione del romanzo (dai molti tratti autobiografici) di Federico Bollettin, prete diocesano uscito dal ministero da qualche tempo e ora sposato con una donna africana. Nessuno vuole mettere sotto processo i percorsi personali e la fatica di decidere cosa fare della propria vita, anche se magari sarebbe corretto riconoscere gli aiuti ricevuti... E in ogni caso ci si poteva attendere un minimo di eleganza nel fare nomi e cognomi, nel pronunciare giudizi sugli altri, nel valutare la vita quotidiana di persone con cui si è camminato insieme; e anche nel dare i numeri.
Quello che ha impressionato molti è la cifra “sparata”: «su 76 ordinati, 19 preti usciti; e quindi un prete su quattro se ne va». Percentuali che dicono, come minimo, gravi ignoranze statistico-matematiche; sperando non ci sia malizia... È come dire che in tre anni si sposano cento coppie e cinquanta si separano: e dunque, fallirebbe un matrimonio su due. Solo che il conto va fatto su tutti i matrimoni degli anni precedenti, come – nel nostro caso – su tutti gli oltre 750 preti della diocesi di Padova. In realtà, su 76 ordinati nell’ultimo decennio si contano 2 (dico due) “uscite”.
Poi è da chiedersi anche dov’è finita la più elementare serietà giornalistica: a Padova le notizie si verificano o no? Non sorge il dubbio o è fastidioso rischiare di risolverlo? E se si spiega come sono in realtà i numeri, perché non tenerne conto? Questo vale anche per la chiesa universale: 100 mila preti sposati è un dato proprio privo di fondamento.
Le cifre non dicono tutto, ovviamente. “Dentro” ai numeri ci sono le persone, c’è il vissuto normale, attivo e sereno di tanti preti che, con pregi e limiti, si spendono generosamente qui e altrove. Nessuna “struttura” è perfetta, a volte i consigli per migliorare è più facile darli che attuarli, ma va riconosciuto il cammino percorso in diocesi: da Borca ad Asiago, per chi ha accolto l’invito a mettersi in gioco, c’è stata ampia possibilità di confrontarsi e crescere, nell’ottica di unificare fede e vita, persona e servizio ministeriale.
Strada da fare? Molta, certamente: da qui al paradiso ogni giornata è fatta di impegno e confronto, vigilanza e possibilità di errore, dedizione e tentazioni di chiusura... Tutta la vita della chiesa – ogni persona – è segnata da questo oscillare, la storia e l’esperienza lo testimoniano. E allora è meglio invocare con umiltà il Signore e ringraziarlo per il bene ricevuto e fatto, vivere con cordialità la fraternità, gestire con sapienza il limite e superare il negativo. Nella luce della fede che sostiene la speranza e dà vigore alla carità.

(giovedì 6 novembre 2008)


I preti? Uomini come gli altri
fatti di carne e fragilità


di Cesare Contarini

L’episodio raccontato dal mattino di ieri, pur con qualche aspetto difficilmente credibile, aggiunge, dopo varie vicende delle ultime settimane, altre domande e dubbi sui preti: ma cosa sta capitando, come mai tutte queste debolezze e miserie? Nel disgusto per comportamenti censurabili, nell’amarezza per amici che non ritrovano più il senso delle proprie scelte, resta in me un pensiero certo, un’idea «solida»: noi preti siamo uomini, uomini come gli altri. Cioè fatti di carne, e dunque di fragilità innata e mai archiviata; a confronto con un mondo che misura tutto e tutti con i criteri del successo, del denaro, della soddisfazione e gratificazione personale, a volte anche schiacciando i più deboli; con impegni tanto grandi e situazioni così complesse che a volte ci si sente oppressi, tanto più se il peso è accentuato da una «solitudine» più subìta che interpretata come possibilità di servizio libero e liberante.

Uomini come gli altri: non per autogiustificare la categoria, né per invocare sanatorie! Ma per ricordare che è stato così sempre: Dio ha voluto salvare il mondo servendosi non di angeli (il vescovo Antonio lo ricorda spesso) ma di uomini e donne, accettando in partenza i rischi connessi con la fragilità umana. Il Figlio di Dio, addirittura, ha scelto di farsi uomo, assumendo su di sé tutto il peso della carne umana, «cardine di salvezza», e ha affidato i suoi tesori più preziosi - il vangelo, i segni della sua grazia, la sua comunità stessa - a uomini normali, dagli apostoli a ciascuno di noi. Solo con occhi di fede si può capire il mistero di una Chiesa che attraversa i secoli consapevole della debolezza dei suoi elementi ma forte della presenza del suo Signore, che è fedele nonostante le infedeltà degli uomini e capace di rigenerare le comunità dopo le prove più dure.

Un’obiezione arriva subito, inevitabile: chi sta all’altare e sul pulpito non dovrebbe fare certe cose. Pienamente d’accordo: il dovere della coerenza con un messaggio così alto come quello del vangelo impegna primariamente chi lo annuncia «professionalmente». Anche per evitare quel duro rimprovero di Gesù («Fate quello che dicono, non fate quello che fanno»): parole che, ogni volta che tornano a messa, sono per me - e non solo per me, certo - tra le più difficili da ripetere e commentare. Perché ogni giorno misuro i limiti miei, degli amici preti, dei cristiani... E quando le azioni non sono all’altezza delle parole, quando si sperimenta il peccato anche «dentro il tempio»? Di solito non è per ipocrisia o cattiva volontà, né per imbrogliare gli altri: semplicemente per debolezza o malattia.

E allora? Al di là dell’idea di superare il celibato obbligatorio dei preti (che non pare all’orizzonte) o della delusione che porta allo scoramento, a me sembrano consigliabili due strade: misericordia e fraternità. Utili sempre nella vita sociale ed ecclesiale, preziose e indispensabili nelle vicende difficili o ingarbugliate. In concreto, vuol dire aiutare chi sbaglia e accogliere senza pregiudizi, sentirsi fratello e non censore; e se è necessario isolare chi costituisce pericolo per altri, occorre comunque tendere la mano a chi è fragile o malato, con generosità di cuore... Vuol dire anche far crescere il «noi» dell’essere Chiesa, riporre battute e sorrisetti maliziosi e sentire sulla propria carne la sofferenza altrui... Vuol dire pure scoprire e raccontare il tanto bene che c’è: anche grazie ai preti - la maggioranza - che non finiscono sui giornali o in tv.
rettore dell'Istituto Barbarigo, Padova
(08 marzo 2010)

1 commento:

  1. Gentile Reverendo, a proposito di carità cristiana e fraternità, chieda a Leone Bartoletti chi lo cacciò dalla Difesa del Popolo. La saluto cristianamente, A.C.

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